Principio da salvare/ Ma quella legge resta una priorità

di Paolo Graldi
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Martedì 17 Ottobre 2017, 01:08 - Ultimo aggiornamento: 01:09
Si riaccende la polemica sulla legge che delimita i casi in cui invocare la legittima difesa.
E configurare gli eccessi, fino all’omicidio volontario. Il caso che fa scendere in campo le opposte fazioni (chi la vuole più rigorosa e chi più larga) è quello dell’avvocato di Latina che ha sparato (alle spalle) a un ladro che stava assaltando la dimora del padre, arrampicato su una scala. Francesco Palumbo, avvocato, 47 anni, ha ripercorso attimo dopo attimo quei momenti terribili, da quando avvertito con tre sms collegati all’allarme elettronico ha capito che c’erano degli intrusi nella casa del genitore, a quando si è infilato in tasca la pistola (regolarmente denunciata) ed è accorso laddove ha visto dapprima il “palo” e poi i due complici, una “paranza” di pregiudicati napoletani. L’ucciso ha diversi precedenti per furto. 

«Ho perso la testa», ha ammesso l’avvocato, sconvolto per l’accaduto. Si difende affermando di aver sparato in aria ma la ricostruzione dei fatti fissa precise responsabilità, che andranno tuttavia approfondite attraverso le perizie già in corso. Sta il fatto che, ascoltato per tutta la notte, Palumbo si deve difendere dall’accusa di omicidio volontario: i colpi alle spalle di un uomo su una scala. Dice che ha avuto paura: il ladro aveva messo una mano in tasca, come per afferrare un’arma. 
La legge esistente, si sa, fissa contorni abbastanza precisi sulle circostanze in cui è possibile far uso di un’arma. Il pericolo dev’essere reale, le circostanze di luogo e di tempo debbono rappresentare un comportamento non genericamente pericoloso. Si è dibattuto a lungo sulla materia. La nuova legge che è in discussione, e che tarda ad essere approvata, sembra riuscire a fissare un accettabile equilibrio, un onorevole compromesso, tra chi sostiene che sparare a chi viene scoperto in casa propria basta e avanza per giustificare l’atto e chi afferma che ciò non è accettabile a scatola chiusa e che, sempre, deve scendere in campo l’analisi dei fatti compiuta da un magistrato. Al togato si chiede di stabilire se il comportamento del derubato che ha sparato rientra nei binari considerati leciti. Chi insegue il ladro che scappa e lo fulmina sparandogli alle spalle, per esempio, è considerato colpevole, nessuna legittima difesa lo protegge.

Ora che il tragico episodio di Latina ha rimesso in moto la macchina delle polemiche e delle contrapposte posizioni e ora che anche l’Associazione Nazionale Magistrati fa sentire la sua voce per chiedere di ridisegnare la legge in discussione, ecco che si riaccende il dibattito tra chi sostiene che le norme esistenti hanno bisogno di allargarsi o di restringersi, a seconda di chi vuole lo sparo libero e chi ne vuole ridurre la possibilità a rarissimi casi. 

La realtà è che un singolo episodio non può essere utilizzato per orientare i lavori del Parlamento. Perché legiferare sull’onda emotiva di casi caldi di cronaca, come anche cavalcare i furori e le paure (anche quelle fondate) della gente, non consente di elaborare norme che tengano conto di tutti gli interessi che sono in gioco. Quel che è certo è che la legittima difesa è un diritto sacrosanto e nessuno può metterlo in discussione; ovviamente, come tutti i diritti, deve avere un confine entro il quale tutti debbono riconoscersi, anche quelli che pensano che ammazzare i ladri, sempre e comunque, sia una buona e saggia cosa. Ma per indicare sapientemente quei limiti occorrono menti fredde, lucide e non condizionate dalle emozioni.
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