Noi e gli altri Paesi/ L’italiano non è una lingua da sudditi

di Alessandro Campi
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Martedì 18 Ottobre 2016, 00:22
Per la prima volta nella storia repubblicana, quello della difesa e diffusione della lingua italiana - tema solitamente riservato agli addetti ai lavori: linguisti, glottologi, storici della letteratura - viene ufficialmente trattato alla stregua di una questione politica dirimente, sulla quale si giocherà un pezzo importante del nostro futuro come collettività organizzata.
Questo almeno è il senso che si ricava dagli Stati generali della lingua italiana nel mondo convocati da ieri a Firenze, dove il governo (a partire dal presidente del Consiglio Renzi, alla vigilia del suo viaggio statunitense) è sceso massicciamente in campo per sostenere come la promozione linguistica sia oggi da considerare un capitolo, tra i più importanti della nostra politica: quella culturale, naturalmente, ma anche quella estera e quella strategica industrial-commerciale. 

Era già accaduto ai tempi del fascismo che l’italiano fosse considerato dal potere uno strumento indispensabile attraverso il quale esprimere la potenza economica nazionale e realizzare la missione civilizzatrice assegnata dalla storia alla Penisola. Oggi l’Italia democratica - la cui Costituzione (articolo 6) prevede la tutela delle minoranze linguistiche ma non contempla il riconoscimento dell’italiano come idioma ufficiale forse anche a causa degli abusi politico-linguistici operati dal precedente regime - non ha alcun primato storico o intellettuale da affermare a scapito delle altre nazioni. 

C’è però il problema di rendersi riconoscibili, anche a partire dalla lingua che si parla, nel contesto dell’odierno mondo globalizzato: un mondo che se per certi versi spinge verso l’uniformità degli stili e dei comportamenti, dall’altro tende ad enfatizzare le particolarità e a valorizzare ciò che appare unico e irripetibile.
C’è inoltre il problema di un’identità collettiva, in primis d’ordine culturale, che in Italia storicamente si è costruita proprio attraverso la lingua: ne sono ben consapevoli nel resto del mondo, dove infatti l’italiano risulta la quarta lingua più studiata (dopo inglese, spagnolo e cinese), ne sono paradossalmente meno coscienti gli italiani. Convinti di parlare una lingua periferica, marginale e decaduta e perciò spesso tentati di sostituirla o ibridarla con l’inglese veicolare nella convinzione che ciò li renda più internazionali e attraenti.

Di solito l’interesse per lo studio nel mondo dell’italiano viene messo in relazione con due elementi, certamente importanti. Da un lato, il nostro grandioso retaggio artistico-letterario, trattato però alla stregua di un’eredità del passato sulla quale vivere di rendita finché possibile e fatalmente destinato ad interessare ambienti sociali sempre più ristretti, altamente intellettualizzati. Dall’altro, quei milioni di discendenti di emigranti italiani (da 60 ad 80 milioni sparsi per il mondo) che cercherebbero, studiando l’italiano, solo di mantenere un legame emotivo con la lingua ancestrale dei padri.
Ma si dimenticano altri fattori, forse più rilevanti e più attuali. Dal punto di vista geopolitico, ad esempio, l’italiano ha ormai soppiantato il latino come lingua della Chiesa, il che le garantisce un’universalità e un prestigio superiori a quelli di altri idiomi. Così come l’italiano è la lingua obbligatoria per chiunque - dagli Stati Uniti alla Cina - sia appassionato di melodramma e di lirica. Ma anche la cultura materiale e di massa, accanto a quella colta ed elitaria, spesso parla italiano a livello globale: basti pensare alla moda e alla cucina. 

Il problema è che questa grande potenzialità, suffragata da molti indicatori empirici, non si è mai tradotta sinora in un’azione di promozione organica e integrata, attraverso i numerosi canali – dagli Istituti di cultura alla rete associativa della Società Dante Alighieri – di cui pure l’Italia dispone. Soprattutto non si è data importanza alla banale verità secondo cui attraverso la lingua un Paese esporta tutto se stesso: non solo la sua cultura, alta e bassa, classica e contemporanea, ma anche la sua immagine complessiva: dunque le sue vocazioni e i suoi talenti in ogni campo, a partire da quello economico.

La «grandiosa scommessa culturale» evocata da Renzi nel suo intervento a Firenze, e che dovrebbe appunto tradursi in azioni coordinate di promozione dell’italiano su scala internazionale, probabilmente consiste in ciò: smetterla con il compiacimento soltanto retorico per la bellezza della lingua di Dante (che in questi ultimi decenni non ne ha comunque impedito il degrado e l’impoverimento, sotto l’assalto del linguaggio semplificante della televisione prima e dei social media poi), smetterla altresì con la storica tendenza degli italiani all’autodenigrazione, e convincersi che l’Italia - purché percepita dall’esterno come una realtà dinamicamente compatta e unitaria, al limite persino orgogliosa di sé - ha un importante ruolo da svolgere nel contesto globale proprio in forza delle sue riconosciute e apprezzate peculiarità, di cui la lingua rappresenta per l’appunto il vettore e l’espressione più importante.

Ma non c’è solo il problema di un Paese che con più forza e convincimento dovrebbe proiettarsi verso l’esterno anche in termini linguistico-culturali. Se è vero che sulla lingua si fondano i legami sociali, i processi di unificazione politica e la stessa possibilità per le persone di stringere rapporti tra di loro, ciò significa che essa rappresenta il principale strumento a disposizione di una comunità politica per integrare chi abbia deciso, venendo dall’esterno, di vivere stabilmente entro i suoi confini geografici. L’esistenza massiccia di immigrati, anche di seconda generazione e spesso residenti in Italia da anni, che faticano ad esprimersi in un italiano appena decente o comprensibile, è l’altra faccia del poco interesse che le classi dirigenti e la società italiana nel suo complesso hanno sin qui dimostrato per la questione della lingua, considerata nei suoi risvolti politici. Se l’appuntamento fiorentino, oltre che una prestigiosa passerella per accademici e studiosi, servirà a diffondere nell’opinione pubblica l’importanza che rivestono la difesa dell’italiano e la sua promozione, si sarà raggiunto un traguardo inedito e per certi versi di portata storica.
 
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