I 30 anni di Internet/Così la rete ha cambiato il volto del potere

di Giuliano da Empoli
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Sabato 30 Aprile 2016, 00:05
Il futuro è già tra noi, solo che è distribuito in maniera diseguale. Lo ha scritto, anni fa, William Gibson, uno dei cronisti più convincenti della nuova era tecnologica e continua ad essere vero mentre festeggiamo i trent’anni della prima connessione internet italiana. I ricercatori dell’università di Pisa sono stati tra i primi europei, il 30 aprile 1986, a collegarsi alla rete Arpanet creata negli Stati Uniti. Ma c’è voluto molto più tempo prima che internet producesse un impatto davvero decisivo sulla società e sulla politica, producendo una nuova categoria di cittadini.
In Italia, siamo solo a metà del guado.

I dati dell’Istat ci dicono che gli utilizzatori di internet sono solo il 60,2 per cento, contro una media europea del 75, e la percentuale di quelli che si collegano tutti i giorni resta molto più bassa, intorno al 40 per cento. Eppure, anche da noi il cittadino 2.0 occupa ormai il centro della scena.
Rispetto alla sua precedente versione analogica, il cittadino 2.0 ha molto più potere. O per lo meno, crede di averlo. Sulle punte delle dita, ha accesso ad una mole di informazioni che farebbe impallidire i più documentati archivisti della generazione precedente, i capi dell’intelligence, J. Edgar Hoover e Richard Nixon. Le app che ha scaricato sul telefono gli danno accesso ad una quantità di servizi immediati, che neppure il miglior concierge di un albergo a sette stelle potrebbe garantire.

In più, ha una voce, il cittadino 2.0: può registrarsi qualsiasi momento e in qualsiasi posa e trasmettere all’istante la sua espressione, i suoi sentimenti, le sue opinioni. Eppure è frustrato, il cittadino 2.0. Perché sa che tutto questo, in fondo, è un’illusione. Il potere vero sta da un’altra parte. E non solo continua a sfuggirgli come in passato. Ma tende addirittura ad allontanarsi, concentrandosi in luoghi sempre più indecifrabili.
Di qui, il paradosso della politica attuale. In un libro recente, Moises Naim ha ben descritto il nuovo volto del potere nell’era della rete. Per un outsider è diventato molto più semplice conquistarlo, perché non c'è più bisogno di scalare uno per uno i gradini di una maxi-struttura per produrre un impatto sulla realtà. Ma è anche diventato molto più semplice perderlo.

Perché le aspettative del pubblico crescono ad un ritmo che la politica non riesce più ad assecondare. Ci lamentiamo tutti dell'inettitudine delle nostre élites, ma la verità è che la qualità media dei dirigenti, nelle nostre società, è rimasta più o meno stabile. Ciò che è cambiato radicalmente è lo sguardo che portiamo su di loro e sul loro operato. Non solo ne sappiamo molto più di prima, perché le telecamere e i siti di gossip sono arrivati fin dentro i bunker segreti e le camere da letto. Ma soprattutto perché siamo tutti abituati alle risposte istantanee dei computer e delle App.

Nel mondo del lavoro, ma anche nel tempo libero, il valore di un’ora si è moltiplicato per venti o per trenta grazie ai progressi della tecnologia. In politica, invece no. Lì le forme della partecipazione e della decisione continuano a essere quelle di sempre: interminabili riunioni e assemblee dall’esito incerto, comitati e sottocomitati che passano giornate intere a non decidere nulla.

Il risultato è una tensione che sta stritolando le democrazie rappresentative di mezzo mondo. C’è chi convinto che l’unico modo di uscirne sia di sostituire una volta per tutte il regime rappresentativo con una specie di referendum permanente. Altri pensano che i principi che sono alla base dei nostri sistemi democratici siano tuttora attuali, ma che i tempi e le modalità delle procedure decisionali vadano adattati alle nuove esigenze del pubblico.
Difficile dire oggi quale sarà l’esito di questo processo. L’unica certezza è che a trarne vantaggio sarà solo chi avrà la capacità di prendere sul serio - e di dare una risposta - alle molteplici, contraddittorie insoddisfazioni del cittadino 2.0.
 
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