Il suicidio di Beatrice/Ora silenziamo quegli odiatori oltre la morte

di Matteo Grandi
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Sabato 7 Aprile 2018, 00:04
La morte di Beatrice Inguì, la 15enne di Rivoli che si è tolta la vita giovedì gettandosi sotto un treno, è una tragedia che si lascia alle spalle una scia di riflessioni contraddittorie e contrastanti. Quello che all’inizio sembrava un terribile incidente si è presto rivelato per ciò che era realmente: il suicidio di un’adolescente troppo fragile e troppo sensibile per accettare il proprio aspetto fisico.

Beatrice era una ragazza sovrappeso. Probabilmente vittima di qualche bullo in rete, forse spaventata da una società che sta trasformando il “like” in un valore. Impossibile speculare oltre, senza conoscere i fatti né la vera natura del suo malessere. Al momento c’è di certo che la Procura ha aperto un fascicolo anche sulle offese piovute in rete. E magari questo aiuterà a rendere più chiaro il quadro a monte e le motivazioni di un gesto che potrebbe avere il movente proprio nel bullismo online.

Quello su cui invece dovremmo lucidamente riflettere è il modo in cui gli organi di informazione trattino certe storie e lavorino su certe notizie. A poche ore dalla sua morte in molti stavano già rimestando nel torbido, andando a pescare in rete le frasi sconsiderate scritte da una manciata di idioti dopo la morte di Beatrice e costruendo intorno a quelle frasi una narrazione sull’odio online totalmente fuori luogo. Troppo forte la tentazione di ricondurre ogni fatto di cronaca al tema “glamour” del momento, troppo invitante filtrare tutto attraverso la retorica dell’odio in rete.

Certo, la materia è attuale, il dibattito su certi argomenti si infiamma, i clic corrono veloci e il moralista che è in noi può puntare l’indice contro gli orribili hater del web sollevando lo sdegno e raccogliendo consensi per le proprie parole di buon senso. Però attenzione: proprio il sensazionalismo a tutti i costi rischia di generare mostri. Se c’è una cosa che chi si occupa di hate speech online sa bene è che la prima cassa di risonanza per l’odio in rete è rappresentata dalla cosiddetta “amplificazione”; ovvero da quell’attitudine dei social network, per cui ogni post (anche il più offensivo) può diventare potenzialmente virale e acquisire una visibilità tanto ingiusta quanto pericolosa. 

Spesso, però, ci sono frasi infelici e insulti beceri che fortunatamente restano confinati in un qualche bacheca senza che nessuno se li fili: senza venire condivisi, senza fare il pieno di like. Cretinate in libertà che valgono quanto quelle del famoso imbecille nel celebre bar evocato da Umberto Eco. Sono idiozie destinate a restare confinate fra quattro mura. Una sparata che in rete non raccoglie consensi e non diventa “visibile” vale più o meno quanto una idiozia detta al bar. Ecco perché quelli che vanno a scavare nei social alla ricerca dell’insulto rimasto sepolto nell’indifferenza, spesso fanno un’operazione eticamente discutibile.

Perché amplificano una voce che era caduta nel vuoto, dando visibilità a cretini che nessuno si era filato. Questo è quanto è successo anche intorno alla vicenda di Beatrice Inguì: tutto un fiorire di commenti sull’odio che non si ferma neppure di fronte alla morte, un racconto condito da dure prese di posizione contro questi mostri da tastiera e dalla trascrizione minuziosa delle offese e degli insulti alla memoria della povera ragazza. Un’operazione che probabilmente ha finito per ferire le persone care a Beatrice che di queste trascurabili nefandezze non avevano avuto nessun sentore, ma che poi se le sono ritrovate sbattute in prima pagina, dove hanno potuto godere di una visibilità insperata.

E sia chiaro, non si tratta di minimizzare: condannare le derive della rete è giusto e doveroso. Ciò che è sbagliato è armarsi di lanternino per fare luce su una demenza d’accatto rimasta nell’ombra.
Il ruolo dei media su questi argomenti è delicatissimo e cruciale. Perché implica una responsabilità enorme. Parlare di odio in rete di fronte alle sparate isolate di dieci imbecilli contribuisce a una narrazione fuorviante e significa amplificarlo. Dare risalto a post caduti nel vuoto significa riportarli in vita e restituirgli la forza e la violenza che nel marasma del web erano andate perdute.
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