L'eredità di Falcone e Borsellino è il rigore figlio del garantismo

di Paolo Graldi
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Sabato 23 Maggio 2015, 23:40 - Ultimo aggiornamento: 24 Maggio, 00:15
Conforta, dà un senso di pienezza forte, ricordare in tanti modi e intensamente l’eccidio di Capaci di 23 anni fa e il massacro di via d’Amelio. E tornare con il rito della memoria ma anche con l’impegno rinnovato ai valori che portarono al sacrificio supremo Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. È bello vedere i giovani rispondere all’appello di chi li chiama a sostenere la cultura della legalità contro le mafie e mostrarsi pronti a segnare la propria esistenza presente e futura con l’impegno di mantenerla viva, di praticarla ogni giorno. Si è detto ogni anno, da quella stagione terrificante di sangue affogato nell’odio criminale, la stagione della più acuta e cruenta sfida del crimine organizzato allo Stato di diritto, che l’eredità dei due magistrati che tutto avevano capito di Cosa Nostra, financo le collusioni più infamanti, doveva diventare patrimonio nazionale.

Un’eredità non solo costituita dal loro esempio in vita, fino all’estremo, consapevole sacrificio, ma anche dall’esemplare modo di affrontare la questione mafiosa, in chiave garantista, frontalmente nelle persecuzione giudiziaria e tuttavia senza mai rinunciare agli strumenti del diritto, del confronto processuale, dell’analisi in tutti i passaggi, delle prove. Tanto e non a torto, si è decantata la lungimiranza di una impostazione investigativa e poi processuale: altri, loro colleghi, ne hanno raccolto l’impegno e affrontato altri rischi, tuttora palpabili. È però vero che quel lascito costituito dall’esempio in vita di Falcone e Borsellino ha incontrato generale condivisione e ancora oggi assistiamo sul fronte della lotta alla mafia al dipanarsi di polemiche infinite, alcune divenute faldoni processuali, altre deflagrate fino a lambire la passata presidenza della Repubblica ed ora, come in un copione destinato a ripetersi, lo lotta tra magistrati per la poltrona di procuratore della Repubblica a Palermo, che mette addirittura in conflitto il Csm con un Tar, il consiglio superiore della Magistratura con un tribunale regionale per l’attribuzione di quell’incarico. Dice il presidente Sergio Mattarella, presenza puntuale a questa ricorrenza, che la lotta alla mafia vedrà la fine, che le battaglie e la guerra contro questa malapianta ramificatissima e nutrita da «menti raffinatissime» alla fine vedrà il segno della vittoria. Un auspicio pacato e fermo che tuttavia non può ancora definire conclusa una stagione che sembra infinita e che segna, nel profondo, la cultura e la stessa economia del nostro Paese. C’è qualcosa che possiamo recriminare nel non aver fatto, nel non aver fatto compiutamente nel combattere questo magma velenoso? Certamente sì. Si dovrà avere il coraggio di riprendere in mano tutta la materia e aprirla senza jattanza ma con sincero spirito critico per capire che cosa ancora si deve cambiare e in tutta fretta, per porre al passo con i tempi anche questo fronte. Una commissione parlamentare che si trascina di legislatura in legislatura, armata delle migliori intenzioni, un’autorità nazionale consolidata nelle sue ramificazioni, una Intelligence che fornisce il proprio contributo, una rete di intensi sforzi forniti dalle diverse istituzioni non forniscono, questa è la verità, un bilancio davvero confortante. Le radici del male si aggiornano, si trasformano, restano impregnate di complicità e si intrecciano, talvolta nei gangli più delicati, con la politica e suoi rappresentanti. Anche il fronte della giurisprudenza s’affanna a inseguire rimedi cotti e mangiati a seconda delle esigenze del momento ed anche in questo caso la lezione garantista di Giovanni Falcone tanto viene invocata quanto è disattesa nei fatti. Sarebbe ingiusto e sbagliato negare i passi compiuti, la cattura dei grandi boss, la disarticolazione dei mandamenti, il disvelarsi dei segreti e degli intrecci delle organizzazioni criminali e tuttavia, lo ricorda spesso anche il presidente del Consiglio Matteo Renzi, siamo ancora a interrogarci su chi aiuti la latitanza infinita dell’attuale boss dei boss, Matteo Messina Denaro, il quale risulta in piena attività. I passi più lunghi, quelli decisivi, riguardano la cultura della legalità: che chiama in causa la scuola, gli insegnanti, lo Stato in generale e dunque le nuove generazioni e i valori nei quali si riconoscono. Non soltanto nei giorni degli anniversari. «Io vi perdono, ma dovete inginocchiarvi», la meravigliosa frase della vedova Schifani, sulla bara del marito, resta un monito altissimo. Quanto davvero ascoltato? La guerra non è vinta e molte armi, da quel tremendo 23 maggio, purtroppo, si sono spuntate, lasciate colpevolmente appese, come se la questione non riguardasse tutti. Nessuno escluso.