Una buona legge è tale se rispetta il senso del limite

di Massimo Adinolfi
4 Minuti di Lettura
Domenica 18 Settembre 2016, 00:02 - Ultimo aggiornamento: 09:52
Il primo caso al mondo di eutanasia su un minore non può non suscitare dubbi e interrogativi. In Belgio, dove si è dato il caso, la legge autorizza trattamenti eutanasici, senza porre limiti di età.

Li autorizza quando il malato sia affetto da un male incurabile, giunto allo stadio terminale, e la sofferenza patita sia costante e intollerabile. Occorre che siano rispettati, e rigorosamente osservati, tutti i pilastri su cui si regge l’eutanasia legale: non solo lo stato clinico, ma anche una adeguata e completa informazione, e soprattutto l’accertamento della volontà del malato. Ora è chiaro che, nel caso di un minore, è molto più difficile stabilire queste ulteriori condizioni. Il significato stesso dei termini coinvolti nella decisione è molto meno netto di quanto non sia per una persona adulta. Che cosa vuol dire morire? Cosa vuol dire compiere una scelta irreversibile? E cosa l’assenza di alternative? In che modo risponda a queste domande un ragazzo, o un bambino, e quanto la risposta sia meditata, riflessa, matura, è tanto più difficile dire, quanto più bassa è l’età del minore. Certo, la legge belga prevede il concorso dei genitori, oltre ai pareri medici, ma il nodo non resta meno intricato, e anzi delicatissimo da sciogliere: quanto sia individuale, indipendente, autonoma, la volontà del minore, che magari ha vissuto solo pochi anni, per giunta in condizioni di salute particolarmente gravose.

D’altra parte: si possono lasciare i genitori e i loro figli soli e senza strumenti, in situazioni estreme, quando il male avanza, la sofferenza si fa insopportabile, e ogni altra via è preclusa? È vero: la medicina oggi dispone di molti modi per alleviare la percezione del dolore, fino alla sedazione profonda, ma rimane comunque la necessità di decidere, o per alcuni di non decidere, sul modo in cui una vita umana giunga alla sua fine: se in condizioni dignitose, umane, compassionevoli. Chiunque sia stato vicino a un malato terminale sa quanto dura sia la prova a cui egli è sottoposto, e come la morte possa diventare, in certi casi estremi, l’unico sollievo dal dolore, o l’unica maniera di mantenere il rispetto di sé. Che in questa stretta possa trovarsi anche un minore può sembrarci inaccettabile: però accade.

È il più grande degli scandali: che un innocente soffra, e soffra al punto che si spenga in lui persino la volontà di vivere. Ma il bambino è il più innocente fra gli innocenti, e la sua sofferenza è la più scandalosa fra tutte. Ne «I fratelli Karamazov», Dostoevskij fa esprimere a Ivan, il più “teologo” dei fratelli, tutta l’enormità di quella sofferenza inutile: in nessun modo redimibile, in nessun modo riscattabile. La più dura obiezione contro l’esistenza di Dio. Di più: Ivan trova ancor più impensabile che si provi a giustificarla, quella sofferenza, a dargli un senso o una ragione. Gli sembra un’offesa ancora più grande provare a inserirla in un qualunque disegno provvidenziale, misterioso o imperscrutabile che sia. Chi domanda di morire non ha più ragioni per vivere, ma forse non vuole neppure che gliele si presti, che altri gliele forniscano, sottraendogli non solo il diritto di disporre della propria vita, ma anche il diritto di lasciarla fuori, definitivamente fuori da qualunque rete di parole. Logos - parola, discorso, ragione - vuol dire infatti originariamente raccogliere, raccolta. È lo spazio in cui la vita umana, in quanto umana, si raccoglie, viene sottratta a una dimensione soltanto naturale, biologica, per legarsi a quella degli altri: in una possibilità di ascolto e di dialogo, in una narrazione condivisa, in una storia comune. Chi muore, muore a tutto questo. Chi vuole morire, vuole morire a tutto questo: è giunto in una landa estrema, solitaria, abissale, in cui le parole sono spente del tutto dal dolore, non possono più raggiungerlo, abitarlo, comprenderlo. Non possono spiegare e nemmeno alleviare.

Ma un bambino? Quali sono le parole di un bambino, le sue ragioni e la fine di tutte le sue ragioni per vivere? Come si precisa la sua volontà di sfuggire alla rete del mondo, di dichiarare che non c’è parola - e non c’è cura - che possa ancora sostenerlo nella sua sofferenza?

Noi non conosciamo l’età del minore al quale è stata praticata l’eutanasia. Non sappiamo quale fosse la sua situazione clinica, le sue condizioni di salute. Dobbiamo ovviamente supporre che siano stati rigorosamente rispettati i protocolli previsti dalla legge, condotte tutte le verifiche e seguite tutte le procedure: il fatto che questo primo caso giunga a distanza di circa due anni dall’approvazione della legge dimostra che la legge non banalizza il diritto a morire per un minorenne. Sarebbe perciò una vera iattura se si conducesse la discussione a colpi di paragoni con le politiche eugenetiche del nazismo e il programma di eliminazione dei disabili, dal monte Taigeto, a Sparta, alle sperimentazioni «in vivo» dei medici del Führer. Tutto questo non c’entra nulla. Ma anche il lessico dei diritti e delle libertà individuali - che è il lessico del nostro tempo - deve chiedersi se ha davvero tutte le parole giuste per spingersi in queste difficili zone di confine, in cui non coincidono o non sono ancora tutte formate individualità, personalità e vita adulta e autonoma. Non è un paradosso che molte cose un minorenne non può fare, mentre può - secondo la legge belga - chiedere di morire?

Delicatezza, umanità, ma anche prudenza e senso del limite sono dunque indispensabili per procedere senza inutile baldanza, sia nella discussione pubblica che nella discussione in Parlamento. Solo così, se si farà una legge, potrà essere anche una buona legge.
 
© RIPRODUZIONE RISERVATA