Ecco perché la Capitale ha perso l’odioso timbro

di Carlo Nordio
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Mercoledì 18 Ottobre 2017, 00:05
In tremila e duecento pagine di motivazione, il Tribunale di Roma ha dipanato la matassa delle colpe dei protagonisti dell’inchiesta “Mondo di mezzo”, e ha spiegato le ragioni delle pene severe inflitte agli imputati principali. 

È una sentenza che rende onore alla magistratura. Essa contiene anche due buone notizie ed ispira una considerazione finale. La prima buona notizia è che, pur nella gravità degli episodi emersi, siamo stati liberati da un incubo. I giudici hanno infatti riconosciuto l’esistenza di un’associazione per delinquere, ma hanno escluso quella di stampo mafioso. La differenza è fondamentale, perché quest’ultima si connota essenzialmente per il suo carattere intimidatorio, e quindi costituisce un pericolo mortale non solo per l’economia e la buona amministrazione, ma per la stessa convivenza civile. Ebbene, il punto centrale della decisione, per quanto qui ci interessa, risiede proprio nell’affermazione che «non esistono provate attività intimidatorie del gruppo». 

E questa è, appunto, una buona notizia: perché se fosse emerso che Roma era contaminata, se non addirittura governata, da una congrega violenta e ricattatrice, ne sarebbe derivato un grave allarme per la nostra stessa democrazia, e un rovinoso discredito davanti al mondo.

La corruzione infatti esiste ovunque, dagli Stati Uniti dove spesso fioccano condanne a secoli di reclusione, fino alla Cina dove non di rado qualche amministratore infedele finisce fucilato. Ma la corruzione mafiosa, che per definizione è assai più violenta e invasiva, sarebbe stata uno sciagurato ed esclusivo attributo della nostra capitale. 
La seconda considerazione positiva riguarda la nostra giustizia. A parte la celerità del processo e la tempestività del deposito di una così lunga e complessa motivazione, il Tribunale ha dimostrato prudenza e buon senso nel valorizzare e interpretare quelle ambigue fonti di prova costituite dalle intercettazioni. Più volte abbiamo sostenuto che esse vanno “contestualizzate”, cioè lette non nella loro trascrizione impersonale, ma secondo le circostanze e le modalità espressive degli interlocutori. Orbene, benché dalle conversazioni risulti un impressionante florilegio di esplicite minacce e oscure soperchierie, i giudici non le hanno ritenute sufficienti a configurare quella forza intimidatrice che costituisce, come s’è detto, il connotato qualificante dell’associazione mafiosa. E’ significativo, ad esempio, che alcune espressioni assai forti, come quella di “spianare le palazzine” o crudeli, come quella di“dargli una frustata”siano state valutate non come manifestazioni di minaccia, ma di “sfogo e di caparbietà”di “un tipico eloquio popolare”.

La considerazione finale riguarda, invece, le ultime vicende legislative. Noi abbiamo aspramente criticato quella sostanziale equiparazione tra i delitti di mafia e di corruzione, che ha introdotto, nel recente codice, il sequestro preventivo di beni anche senza una condanna definitiva. Lo abbiamo fatto, assistiti dall’opinione di giuristi ben più autorevoli, perché l’associazione mafiosa, come quella terroristica, è ontologicamente diversa da ogni altra organizzazione criminale. E se essa, proprio perché eccezionale, può giustificare l’affievolimento del diritto di proprietà, non può tuttavia costituire un pretesto per estenderne gli effetti ad altri tipi di reati. Orbene, la sentenza di Roma ben definisce la distinzione strutturale tra ciò che è mafia e ciò che non lo è. Pur irrogando pene - giustamente - assai severe, ha riportato il diritto nei suoi binari fisiologici, senza indulgere - e la sentenza lo dice - né a buonismi permissivi né a giustizialismi esemplari. Non sarà certo sufficiente a far recedere il legislatore dalla sua scelta infelice: ma poiché lo stesso legislatore ha già previsto una verifica e uno stretto monitoraggio dei risultati del nuovo codice antimafia, questa sentenza potrà costituirne un valido criterio interpretativo, che forse aiuterà a farne comprendere gli errori.
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