L'oscena rincorsa della provocazione

di Sebastiano Maffettone
3 Minuti di Lettura
Sabato 3 Settembre 2016, 00:14 - Ultimo aggiornamento: 00:15
«Non importa che se ne parli bene o male, l'importante è che se ne parli», recita un aforisma di Oscar Wilde. Un aforisma che non è mai stato tanto attuale come ai nostri tempi. Come mostra con dovizia Donald Trump (ma non solo lui), la popolarità dipende dal fatto della comunicazione e non da quello che si comunica. Il risultato di questo andazzo è un precipitarsi continuo e diffuso a spararla grossa per essere notati. Senza tema delle conseguenze. Senza preoccuparsi del contenuto che pure si veicola. Ma sarà poi proprio così? Siamo sicuri che anteporre sempre il rumore al significato giovi a se stessi e alla causa che si sostiene?

Pensieri come questi vengono in mente guardando sgomenti le squallide vignette pubblicate da Charlie Hebdo che sfottono i morti del recente terremoto italiano. Morti disegnati male e contrassegnati da etichette che corrispondono a famosi piatti della cucina italiana: «Penne all'arrabbiata», illustrato da un uomo insanguinato; «Penne gratinate», in cui si vede una superstite impolverata; «Lasagne» fatte di strati di pasta alternati a corpi rimasti sotto alle macerie. Che tutto ciò non faccia ridere, ma crei solo reazioni di ribrezzo, è il minimo che si possa affermare dopo aver guardato le vignette in questione. Non c'è bisogno di essere un critico raffinato per dire che siamo al cospetto di un monumento eretto al cattivo gusto. Ma, allora, perché fare qualcosa del genere? La risposta non può che recitare: per essere notati, perché si parli del giornale comunque sia. Anche se, come di fatto è avvenuto, se ne parlerà male, si alzeranno voci di protesta, si tratta pur sempre di pubblicità, che farà aumentare la circolazione del nome Charlie Hebdo e forse crescere le vendite. 
 
I miei dubbi riguardano proprio i supposti effetti benefici di un'azione disgustosa come quella di insultare i morti. E lo dico non solo per ragioni morali, che pure un minimo dovrebbero contare. Ma anche perché esiste un fatto chiamato reputazione che si rischia di perdere comportandosi in questo modo. Posso affermarlo senza imbarazzo perché ho sempre guardato con interesse e simpatia a Charlie Hebdo e ai giornali che gli somigliano. Agli spiriti liberali, come il sottoscritto, la satira piace. E' un modo per mettere in discussione il potere e per mostrare come le stesse vicende possano essere guardate da diversi punti di vista. Dire di tanto in tanto che il re è nudo fa bene alla salute spirituale dei popoli, e rende gli individui più autonomi nel giudizio. Ma la satira ha le sue regole, possiede un'etica di base da cui difficilmente può prescindere. Vedere un ammiraglio in grande uniforme scivolare su una buccia di banana fa sorridere così come prendere in giro l'arroganza dei potenti. Non è lo stesso se si ironizza sulle difficoltà motorie di uno storpio. Se si fa satira su politico importante, inoltre, si rischia qualcosa. E il correre questo rischio in quanto tale crea un clima di attenzione e simpatia nei confronti di chi è disposto a correrlo. Non è la stessa cosa se si scherza sui morti, sulle tragedie, sul dolore di tanti. In questo caso, alla simpatia si sostituiscono l'astio e il rigetto. Non ci vuole molta audacia a prendersela con chi non c'è più o con chi lo piange

Quanto detto dovrebbero condividerlo in molti. Ma forse più di tutti gli autori di Charlie Hebdo. Proprio loro infatti sono stati funestati da un dramma tragico come quello che tutti conosciamo. Che le vittime della violenza fondamentalista non abbiano rispetto per i morti è quantomeno sorprendente. In quel caso noi siamo stati dal primo momento solidali con loro. Hanno deciso di non reciprocare, e quando noi abbiamo avuto i nostri morti, non sono stati solidali con noi. Tutto sommato peggio per loro: hanno perso un'occasione per comportarsi bene. Per quanto mi riguarda, posso solo dire che oggi je ne suis pas Charlie!. E forse non sono il solo a pensarla così 
© RIPRODUZIONE RISERVATA