Il dramma di una bimba/ Quel grido disperato andava capito prima

di Paolo Graldi
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Martedì 23 Gennaio 2018, 00:45
Nessun biglietto d’addio, magari chiedendo perdono per tutto il male, come succede in questi casi.
Non sapremo mai se quell’uomo, agente di polizia penitenziaria, 53 anni, si è impiccato al cancello di una chiesa a Roccasecca con un pezzo di spago per la vergogna insopportabile d’essere accusato, “orco in famiglia”, di aver stuprato la figlia di quattordici anni per sette mesi o se è prevalsa, travolgendolo, la disperazione per una colpa incancellabile. Il mondo gli è crollato addosso e lui ne è rimasto sepolto. 

La tragica conclusione di una storia oscura, da decifrare per intero, che s’innerva in una piaga infetta di miserie famigliari svelate nelle pagine, quattro, di un tema in classe: «Scrivi una lettera a tua madre confessandole ciò che non hai il coraggio di dirle». Una traccia intrigante, quasi invasiva che lei, la ragazza della quale non si dovrebbe pronunciare il nome, ha riempito con il racconto di un padre che, in assenza della madre, s’infilava nel suo letto rassicurandola ch’era un gesto di educazione genitoriale. 
Per sette tremendi mesi è andato avanti il lurido assalto. La professoressa quasi non ci credeva, mentre leggeva quelle righe intrise di dolore e di sgomento, mentre dipanava i modi e i tempi di quella confessione travolgente. 

Avvisata la preside e poi la polizia: ecco l’indagine guidata dalla Procura di Frosinone prendere forma e con essa gli indizi, le conferme, i riscontri fino alla decisione di formalizzare l’accusa e il provvedimento degli arresti domiciliari, con tanto di braccialetto elettronico e il divieto di avvicinarsi alla casa di famiglia, lui padre di cinque sorelle, tre minorenni. Quella maggiore, pare, anni fa era scappata dalle sue avance e la madre, che aveva intuito, s’era ripetutamente raccomandata: «Mai sole in casa quando c’è vostro padre». Adesso, nella disperazione, tra le lacrime si aggrappa al dubbio: «Lo stupro? Non si sapeva ancora se era vero». 
L’istruttoria del Gip, proprio in queste ore, avrebbe fissato il quadro probatorio. Ma forse serve ancora, perché la coscienza di ciascuno ne ha bisogno, chiedersi come tante altre volte è accaduto, se il percorso giudiziario si sia mosso con le cautele richieste dalla delicatezza e dalla gravità del caso. Affidato a parenti del luogo dai quali è fuggito via quest’uomo non ha sopportato lo schianto delle accuse e forse della stessa colpa ed ha scelto il vicolo cieco di farla finita. 

Si allarga così, dilagando, il dramma che diviene definitivo anche per la famiglia che ha lasciato dopo averne infamato l’intimità, gli affetti, il rispetto, i doveri di padre. 
Si troverà chi sgombrerà il campo della pietà considerando morta anche quella, “perché tanto non meritava altro” e chi saprà invece raccogliere l’intero senso di una vicenda che non risparmia vittime e trascina tutti i protagonisti in un baratro. 

La confessione di una ragazzina che si libera di un segreto che la offende e la opprime resta, tuttavia, il segno di una condizione di infelicità infinita che andava raccolto ben prima, un segnale che doveva trasformarsi in una richiesta sana e innocente di soccorso, di aiuto verso una condizione ch’era divenuta ossessione. 
La scuola ha fatto la sua parte, al punto in cui il tema disvelava la realtà, le autorità non potevano che chiedere una verifica investigativa. E infatti è accaduto. Ed è venuta la conferma che in materia di abusi sessuali in famiglia spesso s’annida il terribile rischio di incorrervi con in più il ritegno quasi omertoso, comunque compresso, del silenzio. 

Questa ragazza voleva liberarsi di un peso insopportabile e quei fogli protocollo hanno raccolto e dato voce alla sua angoscia. Ora, su tutto, s’impone l’urlo del lutto, il deflagrare inaudito della tragedia. E un obbligo imponente e inevitabile: aiutiamola a ritrovare una speranza e a scoprire che esiste anche la gioia di vivere.
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