Il caso Saronno/ L’angelo della morte e i delitti taciuti nell’ospedale lager

di Paolo Graldi
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Giovedì 1 Dicembre 2016, 00:14
Bisogna spingere la memoria negli archivi del crimine più abbietto per rintracciare precedenti alla storiaccia del vice primario anestesista all’ospedale di Saronno, un medico in deliro di onnipotenza che inventava cocktail di fine vita per pazienti terminali. Ma anche, sempre lui, complice l’amante infermiera, per fare piazza pulita, marito compreso, di parenti impiccioni e sgraditi. 
È davvero fragile il sollievo di sapere che il dottor Leonardo Cazzaniga, 60 anni, cultore di miti greci, e Laura Taroni, 40 anni, vedova per vocazione, madre di due figli ch’era disposta a sacrificare sull’altare di quell’amore velenoso e avvelenato, siano in carcere, dopo due anni e mezzo di indagini. Fragile perché è difficile accettare, pur fra tanti e orribili fatti assimilabili, che personaggi del genere siano in circolazione negli ospedali e la cui identità segreta ci viene consegnata da florilegi di frasi intercettate dai carabinieri in un’indagine chiamata appunto “Angeli e demoni”. 
Sognando forse la follia nazista di un dottor Josef Mengele aggiornato dalla moderna farmacopea, il dottor Cazzaniga non faceva mistero delle sue vocazioni assassine, si autoproclamava “Angelo della morte”, mentre gli angeli erano quei disgraziati pazienti capitati sotto le sue siringhe imbottite del suo “protocollo miracoloso”: clopromezina, midazolam, morfina, propofol, promaziona, mix letale di anestetici e sedativi.
Ucciso il marito di lei, facendogli credere d’essere malato di diabete e invece scientificamente intossicato con farmaci che lo hanno condotto alla morte e poi subito alla cremazione, questo professionista altezzoso e perfino temuto si vantava di giocare col delitto perfetto.

Un delitto che distruggeva per sempre le prove della sua esistenza. Deceduti e cremati, ecco la formula. In questo modo, sospettano gli investigatori, è finita la madre dell’infermiera che non accettava, dopo la vedovanza, che quel dottore si aggirasse spadroneggiando per casa, nella tenuta-azienda agricola di campagna. 
I dialoghi, i pensieri, i progetti racchiusi tra le virgolette dei verbali e nei brogliacci fanno rabbrividire perché la Taroni, tra un selfie guancia nella guancia e l’altro col suo innamorato, metteva in gioco la stessa vita dei figlioletti salvati da un moto di vigliaccheria: «No, i figli no». E lei: «Per il nostro amore farei questo e altro». E dell’altro c’era e consisteva nel parlare dei delitti col figlio di undici anni: «A tua nonna e a tua zia non è facile, a meno che tu non gli faccia tagliare i fili dei freni e tiri via l’olio…ma tu non puoi farlo». Non ancora, evidentemente perché il ragazzino, al telefono, si esprime già come un serial killer: «Non sai quanto le nostre menti omicide messe insieme siano così geniali». 

Quelle donne si sono salvate anche grazie a circostanze, diciamo, collaterali: «Una volta che ce ne fossimo liberate che ne avresti fatto? Da noi l’umido passa una volta alla settimana. In campagna non abbiamo neppure più i maiali. E poi sono grasse, grasse…». Sentire oggi che la signora dal camice bianco che immaginava stragi in famiglia e al lavoro per soddisfare i miraggi omicidi dell’anziano amante, sentire che in carcere prova disagio, procura un sottile conforto che non sa di vendetta ma di precauzione minima e imperativa. Saperla rinchiusa rassicura.
In questo scenario, che andrà arricchendosi di particolari, nella speranza che il quadro accusatorio non lasci margine a dubbi e il processo risenta di una urgenza morale oltre che penale, si inserisce il contesto nel quale i fatti si sono sviluppati nel tempo. 
Ci sono tredici indagati, per il momento. Altri personaggi potrebbero aggiungersi già nelle prossime ore. Sono persone dell’ambiente ospedaliero di Saronno, tra i quali, nel silenzio degli altri, si iscrive anche il gesto di una infermiera coraggiosa, una figura determinante nell’avvio dell’inchiesta, che ha denunciato ai carabinieri i suoi sospetti su quei decessi di «malati con bassa aspettativa di vita», curati, si fa per dire, da quell’affabile “Angelo della morte”, come egli stesso si definiva, generoso con sé e con gli altri nell’elargizione di psicofarmaci ad altissimo rischio. 
Insomma, Cazzaniga, dice ora un suo collega, faceva uso di psicofarmaci e li somministrava generosamente per accelerare gli ultimi passi. Possibile, è la domanda che indigna e inquieta insieme, che non vedessero ciò ch’era sotto i loro occhi? Sarebbe bastato ascoltarlo nelle sue vanterie, il dottor Morte, che esibiva il “mio procollo” e lo applicava senza ritegno. Lui, in superba solitudine, decideva la sentenza. 

A un certo punto, quando s’accorge che ci sono indagini che lo riguardano, il dottore che legge e ama Sofocle parla con l’amante: «Potrei essere accusato di omicidio volontario?». Macché lo rassicura lei: «L’eutanasia è un’altra cosa». E se ne convince, rallegrandosene: «Senza i cadaveri non hanno prove. E i cadaveri non ci sono più». 
Bisogna andare oltre il raccapriccio, bisogna capire. Esiste ormai una catena di episodi di gravità simile a Livorno, a Lugo, a Sant’Angelo Romano e altrove. Addetti alle cure che decidono della vita e della morte di pazienti loro affidati. Con ostentata impunità, quasi protetti da una legge divina che attribuisce facoltà sovra naturali, questi attori della “Banalità del male” creano palcoscenici di morte utilizzando come velo di protezione l’indifferenza che non di rado circonda pazienti lasciati a sé stessi, parcheggiati su letti precari in attesa del respiro della fine. 
Le responsabilità del personale di Saronno, medici e dirigenti, sono comunque gravi al di là delle singole attribuzioni dei reati di cui risponderanno: sono imputati di fronte al giuramento di Ippocrate per colpevole indifferenza e miopia, per abbandono del senso obbligatorio di umanità di cui l’ospedale dev’essere la cattedrale inviolabile.
In quei luoghi devono poter abitare solo angeli veri perché i demoni, padroni da una vita e di una morte di cui nessuno può disporre, devono essere scacciati dal tempio della cura e della misericordia. Dove il malato viene prima della malattia, sempre e comunque.
Chi soffre, chi è malato è perciò stesso intoccabile, inviolabile nella sua dignità perché l’offesa della malattia lo consegna al rispetto amoroso di chi sta bene.
L’anestesista avviandosi in carcere sorretto dai carabinieri ha chiesto di recuperare dal suo armadietto un libro sui filosofi greci, la sua passione. Che se lo legga bene: non gli mancheranno il tempo e il luogo.
 
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