Antidoti alla deriva/Come riparare ai danni di una società senza padri

di Luca Ricolfi
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Sabato 4 Novembre 2017, 00:17
Non so se è un caso, o solo una sensazione personale, ma io mi sento inondato. Anno dopo anno, mese dopo mese, e ultimamente giorno dopo giorno, sulla mia scrivania si accumulano i libri sul padre, la sua scomparsa, il suo tramonto, la sua evaporazione.

Una febbre pare essersi impadronita di tutti i professionisti della scrittura: narratori, giornalisti, sociologi, psicologi, psicoanalisti, filosofi, giuristi. Da qualche anno, scrivere un libro sul declino dell’autorità e l’estinzione del ruolo paterno pare essere divenuto un bisogno incontenibile, quasi un’urgenza esistenziale. In Italia ne hanno scritto Massimo Recalcati e Gustavo Zagrebelsky, Michele Serra e Antonio Scurati, Marco Aime e Gustavo Pietropolli Charmet. E, giusto per stare alle ultime settimane, hanno pubblicato un libro su paternità e dintorni Matteo Bussola (Sono puri i loro sogni, Einaudi), Aldo Cazzullo e figli (Metti via quel cellulare, Mondadori), Antonio Polito (Riprendiamoci i nostri figli, Marsilio).

Per Polito (l’autore da cui ho imparato di più), è addirittura la seconda prova: cinque anni fa, nel 2012, aveva pubblicato Contro i papà, un libro denuncia sull’abdicazione dei padri al proprio ruolo di educatori. 
Di questa letteratura, mi colpiscono due cose soprattutto. La prima è la convergenza delle descrizioni che vengono offerte. 

C’è chi insiste di più sulla crisi dell’insegnamento, chi sulla trasformazione dei genitori in amici o sindacalisti dei figli, chi sul ruolo diseducativo della televisione, chi sui danni psicologici e cognitivi dell’iper-connessione, chi sulla latitanza delle istituzioni (dalla Chiesa alla politica), chi sull’interruzione della trasmissione culturale, chi sulla scomparsa dei maestri, però si tratta di sfumature, di piccole differenze di sensibilità individuale: il quadro tracciato è sostanzialmente il medesimo, la preoccupazione per il futuro dei nostri figli (e di noi stessi) è palpabile e condivisa.
La seconda cosa che mi colpisce è il sentimento di stupore che sembra accompagnare quasi tutte queste descrizioni, come se ci trovassimo di fronte a un fenomeno emergente, a una novità con cui è venuto il momento di fare i conti. Con questo non voglio certo dire che non ci siano elementi specifici e relativamente recenti, è anzi un merito di alcuni di questi libri averli messi in evidenza.

Ha perfettamente ragione, ad esempio, Matteo Bussola quando individua nella seconda metà degli anni ’90 il punto di frattura, in cui le famiglie rompono il patto educativo con gli insegnanti (ricordate il “diritto al successo formativo”? Erano quegli anni lì…). E fa benissimo Antonio Polito a far notare che l’avvento di internet sta minando, per la prima volta nella storia dell’umanità, l’idea che la cultura sia un patrimonio da trasmettere, da radicare nelle menti delle persone, piuttosto che qualcosa che si limita a stare lì, accessibile a tutti perché risiede in rete.
<HS9>E tuttavia, di fronte allo sconcerto per la scomparsa del padre, non posso non ricordare quanto tardivo sia questo prenderne atto. Che i nostri sistemi sociali fossero avviati “verso una società senza padre” le scienze sociali lo avevano perfettamente compreso già all’inizio degli anni ’60 (dunque ben prima del ’68). Nel 1963 Alexander Mitscherlich, sociologo e psicologo tedesco, pubblica Verso una società senza padre, un libro profetico, che nel 1970 uscirà anche in italiano.

Lì i lineamenti generali, e i problemi psicologici, di una società senza padri erano già perfettamente delineati. E anche se, ovviamente, i nodi di oggi sono molto più intricati di quelli di ieri, non posso non ricordare che già alla fine degli anni ’70, dunque 40 anni fa, le indagini sociologiche sulla cultura giovanile avevano registrato la fine del conflitto con i padri, e la sua sostituzione con un sentimento di separatezza, diversità, disincanto, distacco rispetto ai genitori e alla cultura stessa, uno stato d’animo che già allora ce li faceva descrivere come “senza padri né maestri” (fu questo, per inciso, il titolo che Loredana Sciolla ed io scegliemmo per il nostro primo libro, un’inchiesta sugli studenti medi di Torino condotta nel 1978).
Ecco perché, di fronte all’improvviso risorgere, mezzo secolo dopo, del tema della “società senza padri”, l’interrogativo che più mi sollecita è: perché? Anzi perché ora, perché solo ora?
Per me la vera notizia non è che la nostra è diventata una società senza padri. Questo lo diceva già Mitscherlich nel 1963, lo ribadiva Christopher Lasch alla fine degli anni ’70 (La cultura del narcisismo è del 1979), e dopotutto altro non è che il compimento del progetto della modernità o, come pare suggerire Polito in una suggestiva ricostruzione storica che parte dall’Émile di Rousseau, è il modo in cui l’Occidente ha declinato le idee dell’illuminismo.

La vera notizia è che, più o meno mezzo secolo dopo la diagnosi di Mitscherlich, si sta profilando un ripensamento, se non una vera a propria reazione, spesso guidata da padri in servizio permanente effettivo. Non tutti accettano la deriva cui le nostre società paiono soggette. Non tutti trovano liberatoria la caduta di ogni autorità. Non tutti disdegano le culture e i valori tradizionali. Non tutti, insomma, sono a loro agio in una “società senza padre”. La pioggia di libri sul padre sembra testimoniare proprio questo: il progressivo instaurarsi di una società iper-individualista, in cui la competizione fra pari sostituisce il rispetto per il padre e l’imperativo dell’emancipazione erode ogni valore tradizionale, incontra anche qualche resistenza.

Perché ora, dunque?
Forse per una ragione tanto semplice quanto decisiva: se c’è una reazione è perché abbiamo passato il limite. E lo abbiamo passato così radicalmente che è divenuto piuttosto difficile non accorgersi degli effetti collaterali. Contrariamente a quel che pensano i cultori più acritici del progresso, il cammino dei modelli culturali non ha solo una componente di trend ma ha anche una componente ciclica, oscillatoria, come il movimento di un pendolo. E questo vale un po’ in tutti gli ambiti, compreso quello delle teorie, quello delle idee, quello dei costumi. Nel ‘700 il cammino delle idee illuministe sembrava inarrestabile, ma nella prima metà dell’800 quelle idee hanno incontrato l’onda contraria del romanticismo, e non solo nelle arti e in letteratura (la sociologia, ad esempio, nasce come reazione romantica alla filosofia dei lumi). In diversi Paesi occidentali alla rivoluzione sessuale degli anni ’60 e ’70 sono seguite ondate neo-tradizionaliste. Quanto all’impegno pubblico, le analisi di Albert Hirshman, forse il più acuto scienziato sociale del ‘900, hanno chiarito definitivamente il suo carattere ciclico, con fasi di riflusso preparate dagli eccessi delle fasi di attivismo.

Ecco, forse la parola chiave è eccesso. La componente ciclica della vita sociale è fondamentalmente legata all’alternarsi di eccessi di segno opposto, come del resto succede nella vita economica, in cui al boom segue il crack, all’espansione delle bolle lo scoppio delle crisi. L’autoritarismo dei padri, nella famiglia come in politica, fu un eccesso della prima metà del ‘900, e il ’68 fu anche una reazione a quell’eccesso. Ma l’individualismo, il narcisismo, la cultura dell’io del cinquantennio post ’68 sono stati a loro volta un eccesso. Un eccesso che, 20 anni fa, con la metamorfosi dei genitori in amici e sindacalisti dei figli, e 10 anni fa, con l’avvento di internet e la progressiva marginalizzazione della cultura e della sua trasmissione, ha fatto un salto di qualità. Ora i danni collaterali della società senza padri sono sempre più pervasivi, nella psicologia individuale come nel funzionamento delle istituzioni, nell’educazione dei figli come nel mondo dei media. Insomma abbiamo esagerato. E abbiamo esagerato così tanto che qualcuno trova persino il coraggio di dirlo, nonostante sappia che da quel momento l’etichetta di nostalgico, fuori tempo, reazionario lo accompagnerà per sempre.

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