L’orario di lavoro/ Poletti ha ragione: ora servono i fatti

di Oscar Giannino
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Domenica 29 Novembre 2015, 00:00
Ha ragione il ministro Poletti quando dice che nei contratti si deve guardare meno all’orario? Guardando magari più ai risultati. Nella sostanza ha ragione, e vedremo perché. Nella forma ha torto: a un ministro del Lavoro bisogna sempre chiedere di parlare commisurando le parole ai fatti. I fatti davanti a noi tutti sono il blocco per cinque anni del rinnovo dei contratti pubblici , e pochi soldi in legge di stabilità ora che per decisione della Corte costituzionale vanno rinnovati. Inoltre, nel mondo privato, uno scontro molto forte tra Confindustria e sindacati, sul tema proprio della contrattazione di produttività aziendale, che assuma la priorità rispetto al contratto nazionale. Poiché il ministro queste cose le sa benissimo, meglio avanzare proposte concrete che far battute, che finiscono solo per mettere benzina sul fuoco. Altrimenti finisce come abbiamo visto: i sindacati insorgono, accusano il ministro di offendere i lavoratori e di non sapere che cos’è il lavoro, e non si fa un passo avanti ma due indietro. Se invece prendiamo sul serio quel che Poletti intendeva dire, allora ha malservito una causa che invece è giusta.

Tutto ciò che regolamenta il mondo del lavoro, le norme nazionali come il Jobs Act, e le norme contrattuali trattate tra imprese e sindacati, dovrebbero partire da una profonda revisione: guardare cioè al lavoro com’è oggi e come si sta trasformando, non più al lavoro incardinato sulla categorie novecentesche, che continuano purtroppo a rappresentare il riferimento obbligato politico-sindacale. È la grande trasformazione del lavoro che dovrebbe ispirare la regolazione e non viceversa. Finché non sarà così, anche le riforme ispirate dalle migliori intenzioni come il Jobs Act non ci aiuteranno a cavalcare l’innovazione. E imprese e lavoratori continueranno a trattare contratti in cui orari e retribuzioni si stabiliscono follemente a livello nazionale per categoria, invece che azienda per azienda a seconda di come sia la domanda effettiva da coprire, e di come conciliare il tempo-vita dei lavoratori con gli obiettivi di produzione da raggiungere per conquistare più mercato, cioè ottenere più reddito sia per i lavoratori sia per l’impresa.

L’obiezione sindacale è che è inutile predicare di un lavoro che non preveda limiti orari alla presenza continuativa fisica, e che non sia ancora purtroppo fatto di mansioni ripetitive e usuranti. Di qui la replica sprezzante a Poletti: vuole farci lavorare a cottimo, tornando indietro di 70 anni. Si tratta, appunto, di una fortissima resistenza culturale ad abbandonare categorie del secolo scorso. Nella realtà dei fatti, per la stragrande maggioranza dei 15 milioni di lavoratori dipendenti tra pubblici e privati, a cominciare da un’elevatissima percentuale di chi è occupato nell’offerta di servizi pubblici e privati, è un dato di fatto che la vecchia presenza continuativa al lavoro è del tutto o in larga parte superabile. Mentre è un problema serissimo la conciliabilità tra lavoro e carichi familiari e cura parentale.

Paragonate i quattro mesi di congedo paterno pagato al 100% di retribuzione appena annunciato da Facebook, ai 10 mesi di congedo parentale complessivi divisi tra padre e madre concessi dalla legge italiana entro i primi anni di vita del bambino ma pagati al 30% della retribuzione, e avrete una prova schiacciante di quanto siamo indietro. Nei servizi, a cominciare da quelli pubblici, fissare con precisione metriche di risultato ex ante e verificabili ex post come ancora di riferimento contrattuale, e allargare la flessibilità oraria con concentrazioni dei carichi anche molto più elevati a fronte dei massi contrattuali odierni ma con mesi poi di recupero vincolati al solo telelavoro dove possibile: è questa, la frontiera verso cui avviarsi. Ma, dicono i sindacati, sono tutte illusioni se parliamo dell’industria, dove i turni sono a mansioni ripetitive e usuranti in catene di montaggio. Non ci siamo proprio: è una visione da strapassato remoto. E laddove è ancora così, c’è un gran bisogno di contratti fatti apposta per superarla. Anche la manifattura italiana è in corso di adeguamento agli standard internazionali di Industry4.0, rivoluzionata da Ict e Internet of things.

I prodotti delle fabbriche 4.0 sono sempre più personalizzati. La produzione di massa è ormai un ricordo. Fino a pochi anni fa la figura del consumatore entrava in gioco nel momento di vendita del prodotto. Ora il suo ruolo è sempre più centrale ed è il protagonista fin dalla fase embrionale del manufatto. La catena di montaggio, grazie all’interconnessione sensoristica dei macchinari, comunica tra le sue diverse componenti e attraverso l’ampio utilizzo di robot conferma che il taylorismo è morto e sepolto. Il ruolo dell’operaio semplice viene a meno. L’’operaio è oggi un colletto bianco, un lavoratore che imposta e verifica i complessi macchinari al fine di ottenere quanto desiderato dal cliente. Le fabbriche oggi hanno migliaia di sensori. E questa nuova figura di lavoratore non seriale deve essere al centro delle nuove norme e contratti: è questa la chiave per alzare la produttività, per far tornare in Italia produzioni che se n’erano andate all’estero, e per ripensare il welfare: welfare non solo pubblico ma aziendale, contrattato impresa per impresa. Il sindacato per primo dovrebbe cavalcare l’idea che un operaio-colletto-bianco ha un’occupazione non più legata a vincoli orari standard mensili e giornalieri, ma totalmente legata al risultato ottenuto e flessibilizzata rispetto alle proprie esigenze di vita. L’orario, come si vede, è un simbolo.

Ma la contrattazione di flessibilità aziendale si sta estendendo in realtà a macchia d’olio anche mentre sindacati e Confindustria litigano. Esempi? Alla Mecc Alte di Vicenza, azienda leader nel settore internazionale degli alternatori sincroni, l’orario è stato completamente rimodulato aziendalmente con i sindacati, rispetto ai limiti del contratto nazionale. Sia per la parte eccedente i massimi, sia con turni di sole 6 ore per 6 giorni. Ma il contratto aziendale inserisce temi come il sostegno alla scolarità, l’ampliamento dei permessi sanitari, gli scambi di turni tra lavoratori, l’aumento degli acconti retributivi per comprovate esigenze.

Alla Brembo, azienda leader nella componentistica automotive, l’accordo aziendale lega l’orario a rigorosi parametri di risultato ottenuti per stabilimento, reparto e individuo, commisurati a metriche condivise coi sindacati di raggiungimento e superamento del fatturato, in cambio di estensioni dei permessi retribuiti per carico parentale, part time e scambi di turni, creazione di una “capitalizzazione delle competenze” per l’assunzione entro 3 anni di coloro che hanno visto scadere contratti a termine non confermati. In Luxottica, la grande multinazionale italiana degli occhiali, la flessibilità oraria rispetto al contratto nazionale è al centro di una scommessa complessiva tra azienda e sindacato: turno e orari fanno parte di un piano diverso reparto per reparto e rivisto e ritarato mensilmente, con scostamenti tra il 25% e il 37% in meno e in più rispetto al contratto nazionale, totale riconoscimento delle ore impiegate dai lavoratori per raggiungere il posto di lavoro, monte ore etico per devolvere a chi ha difficoltà ore accantonate a favore di altri colleghi, commisurazione dei regimi orari dei reparti in linea con quello del reparto che riceve le lavorazioni e viceversa… Come si vede, in Italia in numerose realtà ciò che ha detto Poletti è già al centro di contratti firmati, che migliorano il margine vitale per le imprese e per i lavoratori.

Alcuni, come Adapt del professor Michele Tiraboschi e dei tanti giovani ricercatori che con lui lavorano da anni su questa idea di grande trasformazione del lavoro, hanno il grande merito di richiamare ogni giorno a questa rivoluzione necessaria.
E’ questa la realtà verso cui dovrebbe portarci sempre più il confronto pubblico. Finché restiamo a battute e polemiche stantie, abbiamo la testa volta al passato, cresciamo meno e stiamo tutti peggio.