Obama ha alzato il tono della retorica, promettendo la «distruzione» del Califfato islamico e descrivendo quanto avvenuto come «un attacco all’umanità intera»; i candidati alla Presidenza, in particolare quelli repubblicani, hanno fatto a gara nel flettere i muscoli, con il miliardario Donald Trump ancora una volta a primeggiare nel proporre soluzioni tanto surreali nei contenuti quanto popolari tra l’elettorato conservatore (tra di esse, addirittura la schedatura di tutti i cittadini statunitensi di fede mussulmana). Nel mentre l’emergenza terrorismo sembra avere imposto forme rinnovate, per quanto forzose, di collaborazione internazionale.
E però, la sensazione forte è che l’America non sia oggi così vicina all’Europa e alla Francia. Che le priorità degli Stati Uniti siano altre. Che le dinamiche elettorali, e gli opportunismi politici, abbiano condizionato in modo preponderante la reazione ai fatti di Parigi. E che la coesione dell’alleanza atlantica, i rapporti con gli alleati storici e, in parte, gli stessi problemi mediorientali, per quanto ovviamente rilevanti, abbiano perso la centralità assoluta del passato. Tre elementi aiutano a spiegare tutto ciò: la geopolitica, la politica, e il lascito (e l’asserita lezione) di quattordici anni di campagna globale contro il terrorismo.
La geopolitica, innanzitutto. Ossia la convinzione, da subito esplicitata dall’amministrazione Obama, che risorse decrescenti e un’opinione pubblica interna ostile a interventismi globali impongano la definizione di un precisa gerarchia d’interessi: di individuare con maggior chiarezza i teatri strategicamente nodali.
Alla vetta di questo ranking delle priorità geopolitiche si colloca l’Estremo Oriente: quel teatro dell’Asia-Pacifico verso il quale gli Usa avrebbero dovuto riorientare le proprie attenzioni e il proprio impegno, anche militare. Perché è sulle rotte transpacifiche che corrono - profonde, contraddittorie e potenzialmente pericolose - le interdipendenze fondamentali del sistema internazionale corrente, come i flussi finanziari e i radicali squilibri commerciali ben evidenziano. Perché è in Asia che è parsa emergere la sfida più credibile, quella cinese, all’egemonia statunitense.
Perché nello spazio del Pacifico la rete di rapporti e alleanze bilaterali costruite dagli Usa non ha prodotto quella stabilizzazione altamente istituzionalizzata dell’area nordatlantica. Perché, infine, l’importanza dell’Estremo Oriente era anche derivata. Dipendeva cioè dalla minor centralità dell’Europa e del Medio Oriente: priva di minacce sostanziali la prima; non più così prioritario il secondo, anche alla luce di una dipendenza calante degli Usa dal petrolio mediorientale.
La politica interna offre una seconda spiegazione. È una politica interna che spesso subordina il contesto internazionale a quello interno; che è propensa a piegare il primo alle esigenze del secondo. Anche per questo, quanto avvenuto a Parigi è stato rapidamente “americanizzato”, aprendo un dibattito - assai provinciale - sui possibili riverberi dei fatti parigini negli Stati Uniti. Particolarmente deprimente è risultata la discussione sulla gestione dei profughi siriani, con numerosi governatori repubblicani pronti a rifiutare accoglienza nei loro stati e la camera dei
Rappresentanti a votare demagogici provvedimenti restrittivi.
Che in questo dibattito alcuni politici abbiano presentato come modello positivo una delle pagine più oscure della recente storia americana - la deportazione dei cittadini statunitensi di origine giapponese durante il secondo conflitto mondiale - dà la cifra sia del livello della discussione sia, appunto, di questa propensione a filtrare (e deformare) gli attacchi di Parigi per il tramite della politica statunitense e dei suoi opportunismi, acuiti oggi dall’imminente ciclo elettorale.
La campagna globale contro il terrorismo, infine. Che gli Usa hanno promosso dal 2001 a oggi con strumenti e metodi frequentemente criticati dagli alleati europei e dalle loro opinioni pubbliche. E dei quali - affermano oggi molti, soprattutto a destra - è necessario invece comprendere la necessità ed efficacia ultima. Secondo questa lettura, quanto sta avvenendo oggi evidenzia le gravi responsabilità di un’Europa troppo intenta negli ultimi quattordici anni a polemizzare pretestuosamente con gli Stati Uniti.
È probabile che questo atteggiamento critico nei confronti dei partner europei si vada acuendo nelle settimane e nei mesi a venire.
Che nelle primarie repubblicane non manchino momenti di vera e propria eurofobia cui già abbiamo assistito nel 2008 e nel 2012. Nell’auspicio che la portata della sfida e del pericolo dia fiato alle voci più ragionevoli; che l’emergenza venutasi a determinare alimenti quella sensibilità internazionale internazionalista del Paese andata grandemente affievolendosi negli ultimi anni.