La perdita di Ramadi/ Nelle sconfitte dell’Isis c’è la mano di al-Qaeda

di Carlo Jean
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Lunedì 28 Dicembre 2015, 23:47
La riconquista del centro città e degli edifici governativi di Ramadi - capitale dell’Anbar, la più estesa provincia irachena, centro del potere sunnita, occupata dall’Isis nel maggio scorso - ha certamente un elevato valore simbolico e, quindi, una rilevante importanza strategica. Ha indebolito l’Isis, la cui forza si basa sull’efficacia della sua propaganda, capace di attirare combattenti e sostegni da tutto l’Islam. Essa dipende dai successi sul campo dei miliziani del Califfato. Solo essi possono far credere alla “profezia di Maometto”, escatologica e apocalittica, che ispira la sua strategia sia militare sia comunicativa. La perdita di Ramadi potrebbe ingenerare il dubbio che la vittoria finale dell’Islam non vada data per scontata.

Potrebbe dare vigore ad al-Qaeda, sempre più critica di quanto fa l’autoproclamatosi califfo al-Baghdadi. Le differenze fra le due organizzazioni pan-jihadiste non sono teologiche. Riguardano le strategie e le tattiche. Mascherano la lotta per il potere sull’intero movimento che ha provocato violenti scontri. In Siria, fra l’al-qaedista Fronte al-Nusra e l’Isis, hanno provocato 3.000 morti. In Libia, miliziani fedeli ad al-Qaeda hanno cacciato da Derna i miliziani che aveva giurato obbedienza all’Isis. Al-Qaeda attribuisce priorità alla lotta contro il “nemico lontano”, cioè l’Occidente. L’Isis a quella contro il “nemico vicino”, cioè gli Stati islamici eretici e apostati, perché non hanno giurato obbedienza al califfo. 




È poi contraria alle violenze contro i musulmani. Lo si è visto nell’attentato terroristico in Mali, nel quale gli islamici non sono stati uccisi. La vittoria di Ramadi ha una grande importanza per il governo di Haider al-Abadi. Egli sa benissimo che se le tribù sunnite continuassero a considerare l’Isis il loro difensore contro le prepotenze sciite - del tipo di quelle esercitate dal precedente governo di Nuri al-Maliki - il Califfato non potrebbe essere sconfitto. Non potrebbe neppure essere ricostruito uno Stato iracheno. Per questo, nell’attacco a Ramadi, che è durato più di quattro mesi, il governo di Baghdad ha impiegato solo unità dell’esercito nazionale iracheno, rinunciando a impegnare le milizie sciite e i loro sostenitori iraniani, responsabili di sanguinose violenze contro la popolazione sunnita di Tikrit, l’altro centro, questa volta sul Tigri, riconquistato da Baghdad. Soddisfatti della parziale riconquista di Ramadi sono certamente anche gli americani.

A parte il valore strategico della città, che apre la via dell’Eufrate verso il cuore del territorio dell’Isis, si è confermata la strategia di Obama di fare affidamento solo su truppe terrestri locali, potentemente sostenute dall’appoggio aereo americano, e di limitare al massimo gli attacchi alle tribù sunnite, anche a quelle che vivono del contrabbando del petrolio, la cui estrazione in Siria è controllata dall’Isis, nella convinzione che il conflitto iracheno-siriano potrà concludersi solo con una nuova forma di “Sunni-Awakening”, cioè con la mobilitazione contro l’Isis delle milizie tribali sunnite. Ma la soddisfazione americana deriva anche dal contrasto di Washington all’intervento russo in Siria. La disinvoltura di Putin ha messo in difficoltà Obama. Dopo Ramadi, egli può affermare che la strategia seguita dagli Usa contro l’Isis sta dando i propri frutti. Beninteso, la vittoria conseguita a Ramadi ha i propri limiti. Non è definitiva. I miliziani dell’Isis hanno combattuto duramente fino alla fine. Il numero di attacchi suicidi è stato impressionante. Ramadi era presidiata da qualche centinaia di miliziani jihadisti. Per venirne a capo, sono stati attaccati per oltre quattro mesi da circa 20-30.000 uomini dell’esercito iracheno e delle milizie tribali sunnite. Il rastrellamento completo della città, pressoché spopolata e completamente distrutta, potrebbe richiedere ancora settimane.

La riconquista degli altri centri occupati dall’Isis, da Raqqa e, soprattutto, Mosul, città di 1,5 milioni di abitanti, rispetto ai 500.000 di Ramadi, richiederebbe lunghi tempi e il superamento di consistenti difficoltà logistiche.
Esse si aggiungerebbero a quelle politiche, dati i contrasti fra i sunniti arabi e i curdi. Non è escluso neppure che la sconfitta subita dal Califfato a Ramadi lo induca a comporre le sue divergenze con al-Qaeda, né che, per rivalersi dell’insuccesso in Iraq e in Siria, l’Isis muti strategia, dando priorità ad attentati spettacolari in Europa. Insomma, la vittoria a Ramadi non segna la fine del Califfato. Potrebbe anche indurlo a fare maggiore affidamento sulle organizzazioni jihadiste che gli hanno dichiarato obbedienza, dall’Africa settentrionale all’Asia sud-orientale.
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