Realismo politico/ Medio Oriente, perché Assad è strategico per la stabilità

di Giulio Sapelli
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Giovedì 10 Dicembre 2015, 00:07

L’ultima minaccia di Vladimir Putin contro l’Isis («Spero non si renda necessario l’uso di armi nucleari in Siria», ha dichiarato ieri il leader russo) induce a nuove riflessioni sulla Siria e il suo ruolo strategico in Medioriente. Si rischia però di non andare da nessuna parte se non si ha il coraggio di riconoscere, anzitutto, che la permanenza di Bashar al Assad nel palazzo presidenziale è indispensabile per impedire che il conflitto in Medio Oriente investa la stessa stabilità di Israele, già gravemente minata dall’attuale situazione di disordine. 
Di recente il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, è tornato invece a ribadire che Assad deve abbandonare la scena. Nel frattempo gli Emirati Arabi si sono detti disponibili a impegnare truppe di terra per combattere l’Isis, mentre la Gran Bretagna ha accolto la proposta di David Cameron di intervenire a fianco di Russia e Francia dando il via alle missioni, seguita dalla Germania.

Ma il clangor di buccine da battaglia non serve a nulla se non si ha di mira l’obbiettivo strategico dell’Occidente, ovvero assicurare stabilità agli Stati. È qualcosa che va ben al di là del braccio di ferro tra sunniti e sciiti, iraniani e sauditi. Europa e Stati Uniti devono riprendere una politica di state building. 
Le politiche internazionali degli americani, degli inglesi e soprattutto dei francesi negli ultimi anni hanno provocato danni gravi a nazioni un tempo solide quali Iraq, Libia e Siria. E questo è stato un errore madornale. 
È stato un errore perché l’Occidente ha bisogno soprattutto di avere degli interlocutori stabili.
E quindi deve scegliere volta a volta quelle élite, quei gruppi di potere che possono garantire il più velocemente e solidamente possibile la creazione di aggregati statuali. Per ovvie ragioni il califfato non è compreso nella lista dei possibili interlocutori, ma guai a ignorare che dietro l’Isis si muove l’Arabia Saudita, la quale in questo modo fa la guerra per procura all’Iran.
I sauditi vogliono impedire che si crei una linea retta che dallo Stretto di Hormuz sul Golfo di Oman, passando per l’Iran e per l’Iraq sciita, attraversi la Siria ancora governata dagli alawiti e il Libano con Hezbollah, arrivando così ad affacciarsi sul Mediterraneo. L’Occidente dovrebbe iniziare a fare capire ai sauditi che devono cambiare profondamente la loro politica. Occorrerebbe compiere ciò che Theodore Roosevelt diceva a proposito dell’America Latina: «Dobbiamo usare la carota ma spesso anche il bastone». Con l’Arabia Saudita si è usata solo la carota, ma non si può continuare su questa strada ora che i sauditi si trovano in una crisi irreversibile.
Quanto è avvenuto di recente durante la visita del re Salman a Washington è stato gravissimo - anche se nessuno vi ha posto l’accento - in quanto ha messo in crisi tutte le regole saudite relative alla successione. Vi è che il re non si è fatto accompagnare dal fratello che dovrebbe succedergli, e che non a caso è anche il capo dei servizi segreti, bensì dal figlio. In questo modo ha interrotto la tradizione di successione saudita che non è fondata sulla primogenitura, bensì che passa di fratello in fratello in quanto vige la poligamia.
La mossa di Salman ha creato un’instabilità politica profonda nella stessa Arabia Saudita, che adesso sembra si avvii a scavare la sua fine con le sue stesse mani. Basti dire che la politica petrolifera di Riyad sta generando una crisi fiscale terribile. L’Occidente deve quindi affrettarsi a condurre l’Arabia Saudita a più miti consigli, magari intimidendola e facendole sentire la minaccia di una reazione che può essere anche di tipo militare. E questo perché proprio l’Arabia Saudita è il principale ostacolo alla creazione di Stati solidi lì dove ne abbiamo più bisogno, cioè in Libia, in Iraq, in Siria. 
Naturalmente la Turchia asseconda questa politica, in quanto favorisce le sue ambizioni neo-imperialiste che mirano alla ricostituzione del grande Impero Ottomano non più soltanto su base turcofona, ma anche su base sunnita. 
La situazione quindi è assai più grave di quanto non appaia. Il compito dell’Occidente, lo ribadiamo, è perciò di scegliere volta a volta le parti che aiutano a costituire degli Stati stabili. Anche a costo di difendere un dittatore, sebbene la cosa ripugni: non si fa politica con i sentimenti, ma con robuste dosi di realismo perché la stabilità di un Paese talvolta vale più di una democrazia forzata o sgangherata. 
In questo senso la figura di Assad, per quanto criticabile, è indispensabile per una serie di ragioni, non da ultimo il fatto che impedisce che il conflitto in Medio Oriente si allarghi a macchia d’olio. Il modello di governo egiziano può non piacere, e tuttavia dobbiamo convenire che si tratta dell’unico Stato stabile nella regione. Finché l’Egitto tiene, insieme all’Algeria, possiamo dirci relativamente poco preoccupati, anche se non tranquilli, ma guai a pensare che si possa contare all’infinito sulla tenacia del Cairo e di Algeri.


 
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