Lezione americana/ Ma all’Europa serve ancora la stampella

di Marco Fortis
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Giovedì 17 Dicembre 2015, 00:04
La decisione della presidente della Federal Reserve (Fed) Janet Yellen di alzare il costo del denaro dello 0,25%, portandolo allo 0,25-0,50%, segna la fine di un’era. L’economia statunitense esce ufficialmente da un lungo periodo di ripresa “assistita” per ricominciare a camminare con le sole proprie gambe. Ma occorrerà vedere ora che caratteristiche avrà la nuova politica monetaria nei prossimi mesi, in termini di ritmo e di intensità, quali saranno le aspettative che essa genererà sui mercati, come si muoverà l’inflazione e se la stessa crescita Usa continuerà senza intoppi.

La politica monetaria accomodante americana, imperniata sul mantenimento dei tassi a zero dal dicembre del 2008 fino a ieri, e su un prolungato Quantitative Easing (Qe) che ha inondato i mercati di liquidità, ha consentito agli Stati Uniti, assieme ad altri interventi di emergenza e di politica economica, di venir fuori dalla più grave crisi del secondo dopoguerra. Al di là dell’entità del rialzo annunciato dalla Fed, il segnale è che una fase è finita e ne inizia un’altra in cui le incognite però non mancano.

A cominciare dagli effetti tutt’altro che certi che questa decisione produrrà non solo sull’economia americana ma sull’intera economia mondiale. Quest’ultima sta attraversando una fase assai difficile da decifrare, con un netto rallentamento dei Paesi emergenti, il prezzo del petrolio su valori molto bassi e una crescita dell’Eurozona ancora debole, non più sostenuta dall’export ma non ancora abbastanza sospinta dalla domanda interna. Ma anche gli stessi Stati Uniti hanno davanti un quadro non chiaro, benché la Fed ieri abbia portato dal 2,3% al 2,4% la previsione di crescita del Pil l’anno prossimo.

Infatti, c’è stato negli ultimi mesi qualche segnale di indebolimento del ciclo Usa. In più gli economisti si interrogano sulla possibilità che la decisione della Fed rafforzi troppo il dollaro diminuendo la competitività dell’export americano. Per converso, l’Eurozona si chiede se il dollaro si rafforzerà ulteriormente dopo questo primo aumento dei tassi oppure se i mercati davano in qualche modo già per scontata la svolta della Fed. Nel primo caso le esportazioni europee se ne avvantaggerebbero, mentre nel secondo, qualora l’attuale cambio euro/dollaro già avesse “incorporato” correttamente le aspettative, ovviamente non cambierebbe nulla.

In questi mesi l’export europeo ed italiano verso gli Stati Uniti ha tratto grande giovamento dall’indebolimento dell’euro verso il dollaro. C’è stato un effetto positivo evidente nei numeri della bilancia commerciale e nei bilanci delle aziende perché le esportazioni fatturate in dollari si sono trasformate in molti più euro in tasca. Tuttavia, man mano che ci si confronta su base annua con mesi passati in cui il cambio dell’euro si era già sensibilmente ribassato, questo “effetto spinta” sta venendo meno. Rimane il miglioramento di competitività ma i guadagni puramente contabili si stanno assottigliando. Sempre che il dollaro non si rafforzi ancora, come molti sperano, nel qual caso anche l’effetto contabile proseguirebbe.

Una cosa è certa. Anche grazie alla sua vecchia politica monetaria che è stata “archiviata” ieri l’economia americana si è salvata dal baratro in cui si era cacciata nel 2008-2009. Perché decisioni sostanzialmente giuste, non solo monetarie, sono state prese velocemente e al momento giusto da una nazione, gli Stati Uniti, che ha fatto quadrato per rimediare ai propri errori ed ha agito “da nazione”. Mentre l’Eurozona, che una nazione non è, ancora fatica terribilmente a trovare un’intesa su quali politiche economiche essa debba affiancare alla sua nuova politica monetaria, che Draghi ha intrapreso con coraggio e determinazione, ma che da sola non basta. Ripassare brevemente la lezione americana può dunque essere utile.

Nel 2009 dopo lo scoppio della bolla immobiliare e finanziaria, il Pil Usa aveva lasciato sul campo circa 400 miliardi di dollari a valori correnti rispetto all'anno precedente: una perdita del 2% (del 2,8% in termini reali dopo il -0,3% già patito nel 2008). Ma, fatto ancor più importante, il cataclisma immobiliare-finanziario poi culminato nel fallimento della Lehman Brothers aveva prodotto tra il 2007 e il 2008 un crollo di ben 13.244 miliardi di dollari della ricchezza nazionale americana, diminuita da 68,1 a 54,9 bilioni, il che in termini patrimoniali aveva significato per il Paese bruciare quasi il Pil di un anno intero. La ricchezza netta finanziaria ed immobiliare delle famiglie americane aveva subito il contraccolpo più grande, perdendo nel 2008 10.389 miliardi per il collasso del valore degli immobili e l’erosione del valore degli investimenti finanziari. Un colpo che avrebbe potuto mettere al tappeto il gigante a stelle e strisce, che si trovò ad affrontare una crisi economico-finanziaria di dimensioni e profondità analoghe a quella drammatica del '29.

Tanto si discusse in quei mesi a cavallo tra il 2007 e il 2008 - lo facemmo anche noi sul <CF2>Messaggero</CF> - delle gravissime colpe dell'America che aveva prima prodotto e poi esportato nel mondo intero una simile catastrofe, contaminando i mercati di “titoli tossici”. In ciò essa era stata imitata "in piccolo" anche da qualche Paese europeo come la Gran Bretagna, l'Irlanda e la Spagna, tutti colpevoli, come gli Usa, di aver inseguito il miraggio di una crescita drogata dall'indebitamento del settore privato e dalla follia della più grande bolla immobiliare della storia. La crisi fece crollare nei mesi successivi i consumi e gli investimenti; l’edilizia si arrestò pressoché ovunque; milioni di auto invendute rimasero per settimane stoccate nei porti di tutto il mondo, nei centri di smistamento e persino in aeroporti in disuso; le banche non si fidavano più l’una dell’altra e smisero di prestarsi denaro; 1/3 del commercio mondiale rimase letteralmente paralizzato per un semestre.

Ma proprio l’America (immediatamente seguita dalla altrettanto pragmatica Gran Bretagna) fu la prima a riprendersi. Il programma Tarp, pur discusso, salvò le banche (molte delle quali non versavano in condizioni molto migliori della Lehman Brothers), evitando il collasso dell’intero sistema finanziario. In aggiunta, la politica economica ed industriale, da un lato, e quella dei tassi e il Qe, dall’altro lato, fecero il miracolo. Fu ricostituita la ricchezza della nazione che era andata perduta, anche se lentamente ed è anche per questo che l’economia ha dovuto essere assistita così a lungo.

Infatti, se, dopo il crollo del 2008-2009, al Pil americano bastò appena un anno per tornare, già nel 2010, a valori correnti superiori a quelli del 2008, non altrettanto accadde alla ricchezza nazionale. Servirono due anni in più, fino al 2012, per riportare la ricchezza netta delle famiglie statunitensi sopra i livelli del 2008 e addirittura tre in più, fino al 2013, per recuperare il patrimonio complessivo nazionale eroso durante la fase acuta della crisi. Intanto anche il tasso di disoccupazione ritornò progressivamente su valori normali.

La politica economica e quella monetaria non hanno certamente guarito tutti i mali dell’America, a cominciare dalla mancata ricostituzione del potere d’acquisto delle fasce più deboli e dalle crescenti diseguaglianze nei redditi e nei patrimoni. Senza dimenticare il forte aumento del debito pubblico generato dalla necessità di rattoppare i danni causati dal troppo debito privato. Ma è un fatto che da ieri gli Stati Uniti provano a stare in piedi senza più sostegni artificiali. Mentre l’Europa avrà bisogno ancora per molto tempo della stampella di Draghi. E non solo di quella.
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