Caso Shalabayeva, capo Sco e questore di Rimini indagati per sequestro di persona

Caso Shalabayeva, capo Sco e questore di Rimini indagati per sequestro di persona
di Valentina Errante e Sara Menafra
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Venerdì 27 Novembre 2015, 09:05 - Ultimo aggiornamento: 1 Dicembre, 19:44

ROMA - Sequestro di persona, falso e abuso d'ufficio. Il colpo di scena nel caso di Alma Shalabayeva, la moglie del dissidente kazako Muktar Ablyazov espulsa dall'Italia nel maggio 2013, arriva dalla procura di Perugia e ha l'ufficialità di un'informazione di garanzia con accuse pesantissime, notificata al capo dello Sco, Renato Cortese, all'epoca capo della squadra mobile di Roma, al questore di Rimini Maurizio Improta, già capo dell'ufficio immigrazione, al giudice di pace Stefania Lavore e ad altri cinque poliziotti, in concorso con i diplomatici kazaki.
La prossima settimana dovranno presentarsi tutti in procura a Perugia per essere interrogati. Una mossa ad effetto che di fatto scavalca le indagini della procura di Roma (che aveva accusato di falso solo i poliziotti dell'ufficio immigrazione) e lascia la ricostruzione di questa brutta storia senza i protagonisti principali: l'eventuale mandante e tutta la catena di comando coinvolta.

LA VICENDA
La storia dell'espulsione di Alma Shalabayeva e della figlia Alua comincia il 28 maggio 2013 con un blitz di Digos e Squadra mobile nella villa dove la donna viveva col marito. Nei mesi successivi si scoprirà che quell'intervento è stato sollecitato dai diplomatici kazaki col capo di gabinetto del Viminale in persona, Giuseppe Procaccini, a sua volta invitato a incontrare i funzionari dal ministro Alfano. I kazaki vogliono l'arresto di Ablyazov, dissidente ma pure accusato di bancarotta e per questo inserito nelle segnalazioni Interpol. Il blitz scatta in poche ore. Quando la polizia arriva nella villetta di Casal Palocco, però, il dirigente kazako è già sparito: viene fermata la moglie, immediatamente trascinata al Cie. A questo punto gli eventi si accelerano ulteriormente. Alma Shalabayeva è titolare di un visto Schengen, ma nel corso del blitz non dice il proprio vero nome e mostra un passaporto con un altro cognome rilasciato dalla Repubblica Centrafricana: «Ero terrorizzata, sono anni che fuggiamo», dirà poi. Nel corso dell'udienza col giudice di pace, però, dichiara la vera identità - che di per sé le darebbe diritto a permanere in Europa - e chiede di poter presentare la domanda di asilo politico. La giudice dice che la richiesta dovrà essere presentata nel pomeriggio, ma quando uno dei suoi avvocati, Federico Olivo, torna al Cie, la donna è già stata portata all'aeroporto di Ciampino. Passano poche ore e la procura, sulla base del primo passaporto falso, dà il nulla osta all'epulsione. La Shalabayeva, assieme alla sua bambina di sei anni, viene rimpatriata in Kazakistan a bordo di un volo pagato e messo a disposizione dell'Italia da parte dei funzionari kazaki.

IL CAPO DI IMPUTAZIONE
Secondo l'impostazione del pm di Perugia Antonella Duchini, il blitz a Casalpalocco non sarebbe dovuto partire, si è svolto «contro ogni regola morale e amministrativa»: fonti aperte già indicavano che Ablyazov era un dissidente e la moglie avrebbe dovuto essere protetta. Dunque, in quella scelta iniziale sarebbe anche il dolo, indispensabile per sostenere un reato grave come il sequestro di persona. Tra gli indagati, a vario titolo, anche per falso e abuso d'ufficio, figurano i funzionari della questura di Roma Luca Armeni e Francesco Stampacchia e gli agenti Vincenzo Tramma, Laura Scipioni e Stefano Leoni, tutti e tre in servizio presso l'ufficio stranieri. «Sono assolutamente sereno e ho la massima fiducia nell'operato della magistratura - ha commentato Cortese - Sono fiducioso di poter chiarire al più presto la mia posizione». Sulla stessa linea Maurizio Improta: «Sarò certamente in grado di dissipare dubbi e foschie, sono sereno». Soddisfatto l'avvocato di Shalabayeva, Astolfo Di Amato: «Siamo soddisfatti, la magistratura di Perugia ha dimostrato la sua indipendenza ed autonomia».