La gogna non aiuta a trovare la verità sul caso Cucchi

di Paolo Graldi
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- Ultimo aggiornamento: 5 Gennaio, 00:05
Che brutta piega, insensata e pericolosa, va prendendo il “caso Cucchi”. Questa coda velenosa e avvelenata non aiuta a raggiungere quella verità da sette anni ostinatamente, eroicamente perseguita dalla famiglia di Stefano Cucchi e in prima linea dalla sorella Ilaria, indomabile inseguitrice di una giustizia sfuggente, dapprima sorda e poi pigra, inconcludente. La Cucchi ha postato sul web la foto di uno dei cinque carabinieri inquisiti.

Per i quali volteggiano come macigni accuse gravissime che saranno esaminate nell’udienza dell’incidente probatorio fissata per il 29 gennaio prossimo, durante la quale, si spera finalmente, si potrà fissare con certezza la causa della morte del giovane geometra. In slip di bagno, petto in fuori, muscoli tesi per enfatizzarne il volume, quasi minaccioso su uno sfondo di scogli marini ecco l’immagine di Francesco Tedesco, uno dei militari dell’Arma indagati (lesioni aggravate per il violentissimo pestaggio inferto a Cucchi, da poco fermato, la sera tra il 15 e il 16 ottobre 2009) a cui dedica un “movente” per giustificare il gesto.

La foto è stata poi tolta dal web e quindi rimessa mentre la babele delle voci a favore e contro s’ingigantiva a dismisura tra chi incitava ad arruolare plotoni di vendicatori e chi, più saggiamente, cercava di ricondurre la querelle su un terreno meno violento e più riflessivo.
Ci sono molte ragioni che militano a favore della rabbia e del dolore inestinguibile della famiglia di quel disgraziato giovane: quaranta chili di pelle e ossa, fermato per droga, recalcitrante alla richiesta di rilasciare le impronte, in ogni caso, Stefano Cucchi ha subìto un trattamento inaccettabile, vergognoso e vigliacco prima ancora che penalmente rilevante. Botte, maltrattamenti, un accanimento che ci è poi stato mostrato nelle foto scattate all’obitorio, gigantografie dell’orrore.

Quand’era impossibile mascherare tante brutalità, si è imposta una degenza in ospedale aggravata da colpevoli trascuratezze da parte di medici e infermieri, quasi si trattasse di un pezzo d’uomo a perdere. Il procuratore della Repubblica Giuseppe Pignatone ha liberato la sua scrivania da tutti gli atti svolti fino a un certo punto - processi compresi - e trascinatisi per anni, e ha puntato dritto ad una ricostruzione della vicenda a tutto campo, senza pregiudizi ma anche senza steccati.

Un varco ampio verso una strada di verità e dunque di giustizia. E qui sta il punto rispetto al quale non ci sono sconti per nessuno, famigliari compresi. Si possono avere opinioni anche assai differenti su questioni giudiziarie che prestano il fianco a dubbi e mostrano lacune da colmare. E tuttavia, proprio perché esiste questo spazio ed è praticato da una civiltà giuridica aperta al confronto e anche alla critica più aspra, non è tollerabile inscenare protagonismi di cui non si possono misurare gli effetti. Ilaria, questa è la nostra opinione, con il suo gesto mostra tutta la stanchezza di cui patisce il peso ma non può gettare nell’arena mediatica i suoi rancori.
Stampa e tv l’hanno sostenuta, incoraggiata, comunque ascoltata e la sua “popolarità”, certo non invocata in questi termini, l’ha persino esposta a strumentalizzazioni politiche. Senza volerlo, perfino inconsapevolmente, è divenuta personaggio e il suo grido di dolore e la richiesta di una verità che coincida con la giustizia il simbolo di tante battaglie giuste.

Ma c’è un limite invalicabile. Gettare l’immagine di un carabiniere (neppure ancora rinviato a giudizio) in pasto ai social network infrange un confine: da parte della vicenda processuale si pretende di salire sullo scanno del giudizio col risultato, voluto o no poco importa, di scatenare il peggio delle voci, col rischio di inquinare un quadro che si muove verso una chiarezza senza compromessi, ma anche un quadro che non è ancora chiuso e che, dunque, va lasciato alle sue regole.

La tenuta da spiaggia del carabiniere è divenuta in tal modo una calamita di insulti e di minacce che rischiano di allargarsi alla stessa Arma dei carabinieri, certamente non coinvolta in comportamenti illegali.
Quante volte carabinieri, nel corso di indagini, hanno essi stessi arrestato loro colleghi per ordine della magistratura? È la prassi. Ed è stata esemplarmente rispettata proprio perché la istituzione Carabinieri, così come le altre di uguale rango e responsabilità, deve essere ed è al di sopra di eventuali comportamenti individuali non corretti e perciò stesso punibili.

E invece il rischio, va ripetuto, che lo si voglia o no, è quello di scatenare rancori e strumentalizzazioni che finiscono per indebolire le stesse buone ragioni della causa.
Se quei carabinieri hanno commesso delitti sarà la istituzione di cui sono emanazione la prima a dolersene perché la sua reputazione presso i cittadini deve restare un bene intangibile. Così come è e deve essere assoluta la certezza per ogni cittadino che l’essere preso in consegna dalle forze dell’ordine è un gesto di protezione e non un rischio per la propria incolumità. Il cittadino arrestato è sacro, lo dice la legge e la legge va rispettata.

Chi la infrange sia chiamato a pagare il danno compiuto. Ma la presunzione di innocenza, parimenti, vale fino all’ultimo giudizio. Ilaria Cucchi dispiega le ragioni fragili del suo gesto e cerca riparo nel chiedere a tutti di non usare altra violenza. Una raccomandazione che ha il difetto di essere tardiva perché, nella sostanza, infettata da un germe, l’odio, che è contagioso e pericoloso. La riprova ci arriva in tempo reale da Varese, dove per insensata imitazione, Lucia Uva ha postato online la foto del poliziotto coinvolto nell’inchiesta sulla morte del fratello Giuseppe, avvenuta nel 2008.

Attenzione alle solidarietà pelosa e a buon mercato: potrebbero celare interessi strumentali e niente affatto ispirati a sani principi. Meglio, molto meglio, lasciare che la piazza, quella vera e quella mediatica, si plachino rapidamente restituendo a questa storia maledetta e vergognosa una dignità che la renda credibile e inattaccabile.
Il carabiniere Tedesco preso di mira lamenta ora minacce di morte e aggressioni per sé e la sua famiglia. Ecco, qui si rintracciano elementi di vendetta, portatrice di sciagure e sventure. Il silenzio potrebbe rivelarsi, in attesa dei giudizi autorizzati, una medicina efficace, buona per tutti.
 
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