Ricky Memphis: «Mio padre era fascista, il mio secondo nome è Benito»

L’attore sarà su Rai1 nella serie “Mameli”: «Mi credono un burlone, ma non lo sono»

Ricky Memphis: «Il mio nome? Un omaggio ad Elvis. Ho detto troppi “sì” ma rifarei ogni cosa. Sposo la mia compagna in chiesa»
di Andrea Scarpa
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Domenica 4 Febbraio 2024, 00:29 - Ultimo aggiornamento: 5 Febbraio, 15:13

Dal 1990, quando al Maurizio Costanzo Show iniziò a farsi conoscere come “poeta metropolitano”, Ricky Memphis, 55 anni, è diventato una specie di portatore sano di quella romanità dal sapore antico - semplice, buona e disincantata - che l’ha reso molto popolare e apprezzato. Oggi torna - manco a farlo apposta - nei panni di Ciceruacchio, l’eroe popolino del nostro Risorgimento, nella mini serie di Rai1 Mameli - il ragazzo che sognò l’Italia, in onda il 12 e 13 febbraio su Rai1.

Dopo più di trent’anni di carriera come se la passa? 

«Professionalmente ci sono stati momenti migliori. Mi sembra tutto più difficile di prima».

Che cosa è successo? 

«Sicuramente ho detto troppi sì che non mi hanno portato a fare scelte giuste. Questo per pigrizia, ingordigia ma anche semplice amicizia. Rifarei tutto, però, anche se mi sono seduto sugli allori e mi sono lasciato un po’ andare: sono ingrassato. E ora mi sono messo a dieta, che fatica...».

Tempo fa ha detto che voleva un po’ liberarsi del clichè del romano di cuore, che comunque le ha dato tanto, per fare altro: è più difficile del previsto?

«Sì, molto di più. Oddio, alla fine è solo questione di opportunità. Comunque ringrazio sempre il Signore per quello che ho avuto. Sono stato fortunatissimo». 

Poteva andare diversamente?

«Certo, avrei dovuto lavorare di più sul talento che Dio mi ha dato. Però ho sempre pensato di essere un miracolato: tutto quello che arrivava, andava bene». 

E nella vita privata?

«Non sono uno facile: sono introverso e pigro e di sicuro non mi definirei un allegrone. Mi sono un po’ sciolto con i figli, ma devo ancora fare tanto».

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Come padre che voto si dà?

«A livello d’amore, presenza e impegno mi darei anche dieci, ma è talmente facile amare i figli che non c’è merito.

Poi, per quanto riguarda gli esempi, gli insegnamenti e i valori, non posso giudicarmi da solo».

La cosa più importante da trasmettere qual è stata?

«A parte l’onestà e il rispetto, per me contava e conta non farli sentire insicuri e impauriti come me. Grazie a Dio, soprattutto per merito della mia compagna, mi sembrano due ragazzi a posto».

Suo padre, morto quando lei aveva 4 anni, che tipo era?

«È morto in un incidente d’auto, a trent’anni. Ancora oggi penso a come sarebbe stata la mia vita se fosse rimasto con me». 

E la risposta qual è? 

«Sarebbe stata tutta diversa. Non avrei conosciuto il disagio e il senso di inadeguatezza». 

È vero che era un fascista?

«Papà, che lavorava alla Siemens come perito tecnico, era un fascistone. Il mio secondo nome è Benito... Per lui doveva essere il primo, però mia madre si oppose e fecero un’estrazione con dieci bigliettini: lui barò e scrisse Benito nove volte, solo che uscì l’unico su cui mia madre aveva scritto Riccardo».

Lei cattolico praticante, lui mangiapreti, giusto?

«Quello più mia madre e la sua famiglia».

Le poesie con le quali iniziò la carriera le ha più scritte? 

«No. Erano legate alla mia vita in quel periodo, alla fine degli Anni Ottanta, quando non avevo una lira in tasca e speravo che qualcosa succedesse. Mi esibivo con enorme sofferenza, per via della timidezza, prima di due gruppi rock, i Red Jaguars e i Sentinels. Poi nel 1990 Costanzo mi invitò al suo Show e, dopo avermi visto in Tv, Simona Izzo e Ricky Tognazzi mi chiamarono per Ultrà, uscito nel 1991. Devono aver subito il fascino del borgataro. A loro devo molto. Però se avessi continuato con le poesie sarei stato un ipocrita». 

Le ha mai pubblicate? 

«No. Per pudore ho sempre pensato che non fossero abbastanza importanti, staccate dal contesto di quelle serate incredibili temevo che nessuno le avrebbe capite».

Ce l’ha ancora?

«Macché. Trasloco dopo trasloco le ho perse tutte. Che cazzata...».

Da sempre si professa cattolico e praticante: in un ambiente come il suo è stato un vantaggio o uno svantaggio?

«Non lo so e non mi interessa saperlo. La fede è una grazia che vivo dentro e fuori di me, mi importa soltanto seguire la parola di Dio. Certo, ogni tanto mi dà un po’ fastidio l’ignoranza e l’arroganza di quelli – come certi atei da salotto – che si dicono garantisti e comprensivi per qualsiasi cosa, ma quando si parla di cattolicesimo diventano ferocemente intransigenti. Ci vuole pazienza». 

Cosa teme maggiormente?

«Non mi spaventa la morte, però se me ne andassi ora avrei paura per i miei figli. Hanno ancora bisogno di me. Lasciarli soli adesso, come mio padre fece con me, è qualcosa che mi terrorizza». 

Spesso è stato frainteso?

«Sì. Molti credono che io sia un burlone che sta sempre a ridere e scherzare. Ogni tanto sì, ma la realtà è che mi piace stare per conto mio. Sono sempre stato così, anche quando lavoravo come pasticciere o manovale». 

È sempre un rompipalle con mille paranoie - sono parole sue - spesso anche un po’ ipocondriaco?

«Sì, ma lo sono più con me stesso che con gli altri. Sul fronte ipocondria un po’ sono migliorato».

Ha scelto di chiamarsi Memphis in onore di Elvis Presley (Memphis è la città dove morì il 16 agosto 1977): è ancora una sua passione? 

«Sempre. Rimasi folgorato da lui a casa di mio zio, a Frascati, leggendo il giornale che dava la notizia della sua morte. Avevo 9 anni. C’era una sua foto sotto il titolo: “È morto il re del rock”. Veniva descritto come un eroe infallibile. Credo di aver visto in lui una specie di figura paterna. Ogni volta che lo sento cantare mi emoziono fino alle lacrime». 

Nel film “Il grande salto”, diretto dal suo amico Giorgio Tirabassi, il suo personaggio cita spesso “Il libro del destino”: lei ci crede o no?

«Se penso a tutto quello che mi è successo, sì. Poi, credendo in Dio, e nel libero arbitrio, penso di averci messo del mio. Alla fine quelle poesie che speravo mi portassero altrove le ho scritte io, e sono sempre io quello che si è violentato andando nei locali a leggerle, senza fossilizzarsi sul muretto sotto casa a parlare - con una canna fra le dita - di donne, macchine e Roma».

Orfano di Mourinho?

«Vedovo inconsolabile. Massimo rispetto per De Rossi, ma far fuori il Mister in quel modo è stato troppo brutto».

Quando diventò padre iniziò l’analisi: oggi va ancora?

«Ho ricominciato da poco. Stavolta, però, il percorso è diverso, più cognitivo comportamentale, quindi più pratico e mirato. Voglio provare a essere davvero un uomo migliore».

Perché, lei che è così praticante, non ha sposato la mamma dei suoi figli?

«Io ho un matrimonio alle spalle e per avere l’annullamento dalla Sacra Rota c’è voluto tanto tempo. Presto lo faremo in Chiesa».

Le piace Papa Francesco?

«Certo. Anche se sono più tradizionalista e apprezzavo molto Papa Ratzinger, voluto da Giovanni Paolo II come garante della fede».

Quando le hanno proposto Ciceruacchio il primo pensiero qual è stato?

«Ho riso perché vivo vicino alla sua statua. Il destino è così...».

Il ruolo che oggi più le piacerebbe fare?

«Un serial killer, o quello che gli dà la caccia». 

Farà l’attore per sempre o a una certa età è meglio mollare?

«Vorrei staccare in tempo per non sentirmi ridicolo».

Mai successo?

«Qualche volta, ma poi ci ho riso sopra. Forse sono soltanto un po’ presuntuoso».

Per il futuro ha già impegni o è disoccupato?

«Ho fatto un incontro l’altro ieri. Due progetti concreti, un film e una serie, ma è tutto ancora da definire. Per ora, sono disoccupato. Come tanti».

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