Rockwell: in viaggio con papà

Rockwell: in viaggio con papà
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Giovedì 4 Dicembre 2014, 06:04
IL PERSONAGGIO
Lo studio a Monteverde è ingombro di piccole sculture: le teste dei parenti («sono rimasto vedovo un anno e mezzo fa, dopo 55 anni di nozze: passano a trovarmi dagli Usa, spesso nella casa che ho in un borghetto del Casentino»), o volti dalle bocche spalancate («amo i mostri di Bomarzo»); del padre, prima dice che vuol parlare poco («in famiglia, ero io che andavo a raccontarlo; ora un po' meno. Perché? Mah, forse sono geloso del suo grande successo»), ma poi, cede. Peter Rockwell, 78 anni, trapiantato a Roma da 52, è il figlio più giovane di Norman, illustratore tra i più straordinari di sempre (1894-1978). In mezzo secolo, dal 1916, a 22 anni, 323 copertine del Saturday Evening Post, le più belle si potranno ammirare fino all'8 febbraio a Palazzo Sciarra, in via del Corso. Peter non doveva diventare scultore: «È il modo peggiore per guadagnarsi da vivere», diceva il babbo. Ma è giunto in Italia seguendo il più vivido ricordo di lui che conserva: «A cena, ci rapiva raccontando i suoi viaggi in Europa». Rammenta tra l'altro «la volta che vidi Kennedy in pigiama»: andavano per il solito ritratto, lui che era al volante, un fotografo e il padre («ha sempre disegnato partendo dalle immagini di chi doveva eternare»), e, nella casa al mare, il presidente li ricevette abbigliato così.
PIAZZA NAVONA
All'inizio, è stato anche aiutato dal padre artista che non lo voleva scultore: gli ha procurato qualche lavoro. Poi «è venuto a trovarmi, più volte, a Roma: la sua terza moglie diceva che il solo modo perché prendesse una vacanza era di farlo viaggiare». Scendeva al Raphael, quindi all'Hassler: «Un giorno, a piazza Navona che amava tantissimo, visto che dei bambini andavano in bicicletta, ne comperò una. Però un vigile disse di no: potevano pedalare soltanto i ragazzi; e allora, me la regalò». Quanto si vede dalla cima di Trinità dei Monti «l'ha ritratto più volte: gli piaceva molto». E a lui, il terzo figlio, l'Italia è rimasta subito dentro: nel 1958, un viaggio in Scozia; poi, Parigi: «In autostop, fino a Firenze; non c'è scultore che io ami di più di Donatello. C'era anche mia moglie: ci siamo rimasti 12 giorni. Ma poi, il mio insegnante m'ha detto: Firenze è bella, però Roma ha tutto. Ed ha ragione; forse, le manca soltanto il gotico».
È vissuto a via Panisperna, vicino a via dei Coronari, a via Monterone, a Trastevere, da 30 anni a Monteverde. Ma «i luoghi che amo di più, sono Santa Maria sopra Minerva, la Colonna Traiana, che ho studiato sui ponteggi, la Galleria Borghese e la forma del seno di Paolina, fatta da Canova, che è al Museo napoleonico». A Roma ha fatto infinite cose: insegnato in un liceo, all'Accademia Americana, all'Iccrom, all'Istituto centrale del Restauro; sul restauro ha scritto anche un manuale, in inglese e italiano; sua moglie aveva tradotto in inglese il fondamentale testo di Cesare Brandi.
I VOLTI
Pratica anche un certo tipo, abbastanza originale, di arte religiosa; le sue opere sono, per esempio, a via Nazionale, a San Paolo dentro le mura, la prima chiesa non cattolica dell'Urbe dopo l'unità d'Italia: sei nel giardino, e un Crocifisso all'interno, accanto ai mosaici disegnati da Edward Burne-Jones. Ma anche 42 capitelli in un chiostro, che è il museo diocesano di Chioggia. Peter Rockwell è spiritoso, e celia: «Forse sono l'unico capitellista»; in inglese suona come «capitalista», e lui, camiciona a fiori, bretelle rosse, non lo è affatto. Dai gesuiti di Boston c'è anche un suo grande Albero della vita. «Mi piace fare cose un po' comiche»: perfino un Gesù che parla con lo Spirito Santo, stando comodamente seduto. «Prima, realizzavo molti acrobati; ora, di più dei mostri; uso abbastanza le resine e poco il bronzo: ormai, fonderlo costa troppo; quando sono arrivato in Italia, era un decimo che negli Stati Uniti».
LE EREDITA'
Il pallino dell'arte è passato in famiglia. Un bisnonno paterno era pittore; uno dei fratelli, il maggiore, anche; ci sono artisti perfino tra i nipoti; l'ultima sua opera la sta terminando, un rilievo tondo per il cimitero acattolico di Roma, con tutti loro sei, moglie e figli, con sembianze ancora giovanili. Molte sue opere sono al museo dedicato al padre, nel Massachusetts, anche con i ritratti che il padre gli ha fatto da piccolo: «Mi ha usato spesso come modello». Ad esempio, è il ragazzo che cena in un vagone ristorante, 1946: «Una carrozza gli fu spedita apposta a New York, per realizzarlo»; è l'ultimo ritratto che Norman ha fatto di Peter. «Papà non era troppo apprezzato: lo ritenevano di serie B, un illustratore, non un artista; il suo riscatto è arrivato tardi». Gli ha fatto un ritratto, ma al padre non era piaciuto troppo, «forse, perché c'era un po' di Pollock». Ora, è anch'esso al museo negli Stati Uniti.
IL CIRCO
Ricorda che «lavorava sette giorni alla settimana; noi figli, potevamo entrare nello studio mentre era all'opera; amava i pittori olandesi, Rembrandt e Bruegel, ed era fiero che non copiassimo il suo stile». «Ogni tanto, andavamo tre giorni a New York, e ci portava al circo; mi è rimasta la passione: anche a Roma, li ho praticati sempre; una volta, andai con il mio carnet degli schizzi: mi fecero entrare gratis e ho visto otto volte lo spettacolo». Ma «la cosa più formidabile era come a tavola ci raccontava i suoi viaggi; ha inculcato in tutti noi la voglia di muoverci, andare in Europa, di valicare i continenti e i mari». Anche il padre aveva sempre con sé il carnet per i disegni: «Uno, glielo rubarono al Prado; l'aveva appoggiato: si voltò, non c'era più»; forse, il ladro non sapeva nemmeno che valore, oggi, potrebbe avere quel quaderno. Così dice lo scultore, ma anche il figlio d'un grande artista. È molto americano; chissà se lo sa: proprio come tutti i disegni del padre.
Fabio Isman
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