Virginia Raffaele: «Questa volta sul palco porto la vera me stessa»

Virginia Raffaele: «Questa volta sul palco porto la vera me stessa»
di Malcom Pagani
11 Minuti di Lettura
Domenica 30 Aprile 2017, 00:25 - Ultimo aggiornamento: 5 Maggio, 20:52
Trucco, maschere, nasi finti. Poi, quando è già notte, la vita vera: «Esco da Cinecittà a tarda sera, provo a ordinare una pizza al telefono, ma a quell’ora ti ride in faccia anche il delivery. Allora prendo la mia macchinetta e attraverso la città alla luce dei lampioni. Via Tuscolana, Piazza Vittorio, il Centro Storico. Guardo le curve, gli alberi e i semafori. Poi arrivo a casa, metto una zuppa nel microonde ed è allora, seduta con il cucchiaio in mano sul divano, che guardo l’orologio, capisco quanto è tardi e come questa impresa mi abbia fatto restare momentaneamente sola. Non mi permetto neanche più il lusso di un bicchiere di vino e mi dico: “È questo l’inizio della fine?”». Da alcuni mesi, sorretta dall’ironia, Virginia Raffaele vive sotto il dominio pieno e incontrollato del suo nuovo programma. «Se torno a ieri e all’adolescenza in cui facevo di tutto per schermirmi e mettermi da parte e poi penso a oggi, mi sembra quasi impossibile che sia accaduto e mi dico: “E adesso dove mi nascondo?”».

Dopo Sanremo e più di cento serate in giro per l’Italia, tutte sold-out con Performance, l’attrice torna lì dove tutto era iniziato. Su un palco, per quattro prime serate su Rai Due a partire dal 18 maggio, con una trasmissione prodotta da Ballandi entertainment e indirizzata dal fiuto del patriarca Bibi, in cui riproporre personaggi vecchi e nuovi, circondata dagli amici che prima, quando era solo una parte del tutto, non avrebbe potuto neanche sognare di ospitare. Adesso guida lei e il dato, giura, un poco la spaventa: «Ho una gran paura, ho l’ansia proprio. Ogni tanto mi addormento e mi chiedo: “Sarò capace di fare ‘sto mestiere?” Mi dicono cose bellissime e mi incoraggiano, ma più me le dicono, più dubito». Il titolo del varietà- tra suggestioni circensi di stampo felliniano e spirito anarchico, l’ha scelto lei: «Ho deciso che si sarebbe chiamato “Facciamo che io ero...”. Un po’ perché era un gioco di mìmesi che facevamo da piccoli tra ragazzini e che può accendere la fantasia, un po’ perché ogni volta che interpreto qualcuno sto chiedendo al pubblico di accompagnarmi e crederci con me». 

Lei fatica a credere in se stessa? 
«Sono molto severa, ho qualche tormento interiore e giro con un cilicio nella borsa. Ogni tanto provo a persuadermi e a fare autoanalisi: “Molla un po’ la presa, datte tregua Virgì”, ma in una cosa spero soprattutto». 

In cosa? 
«Nel riuscire a mantenere l’incoscienza di buttarmi senza fare calcoli. Si chiama follia, se reciti ti serve». 

Le è servita per arrivare fino a qui? 
«Ho ricevuto tanti no. Alcuni mi hanno ferita, altri mi hanno reso più forte e quasi fatalista. “Se non c’è questo ruolo per me- mi dicevo- significa che non è ancora il ruolo giusto”». 

Ha mai dubitato di farcela? 
«Forse a 15 anni, quando una porta in faccia mi fece più male di altre e per un attimo pensai: “È finita”».

Fu solo un attimo? 
«Un attimo e niente più. “Non posso non farcela- mi motivavo- ve state a sbajà”. Certo, bella non ero. Avevo più di un difetto fisico e tanti anni di danza non avevano prodotto il miracolo di rendermi più aggraziata. “Che vorresti fà, tu? L’attrice? Non hai la faccia giusta” mi dicevano ai provini e infatti tra una protesi, una passata di cerone e uno sbaffo di colla, la faccia per poter stare in scena poi me la sono coperta». 

Provava rancore? 
«Rancore mai, ma certe volte, ripensando a quei rifiuti, un desiderio lo covo: “Ma non potrei incontrare di nuovo quegli stronzi di allora?”. (Sorride). E comunque ho sempre saputo che un altro lavoro non l’avrei mai potuto fare». 

Un lavoro normale? 
«Un altro lavoro, perché dal mio punto di vista non sono normali neanche tanti altri mestieri». 

I suoi genitori gestivano un banco al luna park dell’Eur. 
«Quello del Tiro al Cinzano. Mia madre e mia nonna, tra l’invenzione delle autoscontro e le giornate spese a far divertire gli altri, il luna park l’avevano fatto nascere e ci avevano trascorso buona parte della loro giovinezza. Ci sono tornata in visita anni dopo, quando era ancora chiuso e mi è preso un colpo al cuore. In certi banchi, i gestori avevano lasciato parole di addio e di rimpianto. Come in una lettera d’amore ed è normale, perché quella è stata una grande storia d’amore». 

Era una vita dura? 
«Allegra e faticosa. Quando mi chiedono: “Ma non hai paura di perdere tutto da un momento all’altro?” rispondo che chi nasce e parte dal niente, al niente non può temere di tornare». 

Lei è partita da zero. 
«Non mancavo una sola trattoria. Bussavo, entravo, chiedevo una sponsorizzazione per i primi spettacoli e a volte, il più delle volte, uscivo senza aver ottenuto nulla. Ma faceva parte del gioco. Nei teatrini, con le maestre impotenti o complici a seconda della distrazione, le scolaresche ci bersagliavano di palle di carta e monetine. Sognavo di incontrare i piccoli barbari per un duello western a fine recita, ma quelli, vigliacchissimi, erano già lontani». 

Che sapore ha la gavetta? 
«Quello dell’anonimato tipico della controfigura, della stuntgirl fifona e seppellita sotto terra a meno 10 gradi in una fiction con Gigi Proietti o dei cartoni di pizza sui tappetini delle auto. Un gran casino, allegro. La vita che volevo. Con il mio primo gruppo, “due interi e un ridotto”, giravamo l’Italia da nord a sud. Anni di sacrifici, caselli e autogrill. Ho percorso la mia strada con orgoglio e con gran divertimento, senza rimpianti, senza piagnistei e senza accontentarmi mai. Dal lunedì al venerdì vestendo certi panni e poi cambiando d’abito nel week-end, al Luna Park, per dare una mano ai miei». 

Un attore cambia ruolo per definizione. 
«Tutti quanti recitiamo un ruolo e non siamo mai quelli che sembriamo davvero. Lo faccio io, lo fa il dentista, lo fa lo spazzino. Una volta chiusa la porta di casa, chi può dire chi siamo veramente?». 

Lei chi sente di essere? 
«Una ragazza che in fondo conoscono in pochi e che ogni tanto, per quieto vivere, come tutti, si racconta qualche balla per non soffrire troppo. La realtà a volte opprime, colorarla o cambiarle aspetto è consolante. Qualcuno ha detto: “Virginia è così e ve la racconto”, ma non è vero. Fatico a definirmi persino io, dubito che lo possano fare gli altri».

Proviamo? 
«Sono un’attrice che prende in prestito le caratteristiche di un’altra persona, prova a rubarle l’anima e poi, come un Caronte, la traghetta altrove trasfigurandola e traducendola».

Quanti gerundi. 
«Ma io vivo in un gerundio perpetuo. Sto andando e sto viaggiando, dove sia arrivata ancora non lo so e forse neanche voglio saperlo: “Goditi il momento”- mi dicono e io mi accorgo che momento è una parola così aleatoria, così passeggera, così effimera. Un momento è destinato a passare per definizione e io non ho voglia di “passare”». 

Il suo primo ruolo fu accanto a Carlo Croccolo. 
Interpretavo sua figlia Pistilla in Plautus. Entro in scena, vengo rapita e poi riappaio nel finale. Dico sei parole in tutto, strappo una risata e torno dietro le quinte. Nel resto della rappresentazione, per non impazzire, avevo imparato a memoria anche le battute degli altri attori. Le ripetevo tutte protetta dal sipario, a uso e consumo dei tecnici». 

Che rapporto ha con la memoria? 
«Un rapporto consapevole. Fin da piccola fissavo le cose importanti con la certezza che me le sarei ricordate una a una. E mi rivedo su una panchina a mangiare una Coppa Rica al caffè, sul terrazzo con mia madre con delle strane pantofole ai piedi o senza fiato sul palco, per la prima volta. Credevo di morì dall’emozione». 

E la routine salva dall’emozione? 
«La routine inganna e basta. Tre sole cose deve provare a non fare un attore: ripetersi, non fidarsi dell’istinto o farsi fregare dal compiacimento. Quando gongoli e pensi “Mi ha detto culo” hai già smesso di inseguire il miglioramento». 

Quali attori le piacciono? 
«Nonostante la sua indifferenza, amo Frassica. Solo lui può dire certe assurdità in quel modo e intuisci la sua grandezza quando ascolti le stesse cose dette da altri. Non muovono un baffo in quel caso, restano inanimate».
 
Perché nonostante la sua indifferenza? 
«Quando lo incontro gli manifesto tutto il mio entusiasmo, ma lui niente. “Ciao Nino, sai che per me sei tutto?”. Lui dice ciao, saluta e passa oltre. Ha una sua asentimentalità, Frassica e forse è anche il suo bello». 

Altri punti di riferimento? 
«Non Villaggio che è grande, ma che con il suo Fantozzi, da bambina, mi turbava e mi faceva piangere, ma sicuramente Zalone. Lui della comicità ha fatto proprio il giro completo. È andato oltre. Ha rotto le barriere. Mi manda messaggi vocali scorrettissimi: “Sei la più brava- dice- ma questa cosa è assurda, tu sei femmina». 

Peculiarità essenziali di un attore? 
«Si deve permettere il lusso della commozione e deve provare a tenere in equilibrio cinismo e ingenuità». 

Lei ci riesce? 
«Non sempre. Ci metto troppo core. Pezzi de core, proprio. Se sono perfezionista lo sono per amore. Se sono maniacale è perché nei dettagli, anche e soprattutto in quelli apparentemente inessenziali, si nasconde la sostanza delle cose». 

Recitare è anche sofferenza? 
«Ogni tanto mi faccio male, ma va detto che il dolore lo sopporti, anche se sei solo. Le cose invece sono belle soltanto se puoi condividerle». 

La comicità per un commediante è eterna? 
«Certe tipologie di comicità hanno la data di scadenza e io mi sono data un limite. A 45 anni, a confondere ancora il sapore del prosciutto di un tramezzino con la colla sulle labbra in una pausa delle prove, non mi ci vedo proprio». (Ride) 

È vero che il cinema non le interessa?
«È falso. Avevo una nonna che partecipò a I soliti ignoti, fece la comparsa ne La contessa scalza di Mankiewicz e rischiò la spina dorsale interpretando la cavallerizza in un film di Gigi Magni. Mi piacerebbe fare cinema e più di tutto mi piacerebbe recitare con Almodóvar. Ha scattato meravigliose foto femminili, mettendo nelle sue storie sensualità, dolore, profondità e comicità anche involontaria. Nella tenerezza a tinte naïf, la donna può trasformarsi in oggetto comico irresistibile, ma è un lato che è difficile mettere in luce». 

Che personaggi vedremo in “Facciamo che io ero?”. 
«Ornella Vanoni che flauta “abbiam mica fatto l’amore io e te” o Carla Fracci, ci saranno sicuramente. Ne sto studiando in corsa altri, ci sarà sicuramente un personaggio inatteso, Virginia Raffaele nel ruolo di se stessa e almeno, dopo le minacce della criminologa Bruzzone, sono certa che non subirò un’altra querela. A querelarsi da sola non riuscirebbe neanche Anna Oxa». 

All’ultimo Festival di Sanremo la figlia di Sandra Milo si risentì. 
«Non ho ancora capito perché. Nella mia visione Sandra Milo è un’astrazione. Una bambina di 80 anni che vede nuvole e lietezze felliniane ovunque. È andata ospite da Fabio Fazio e ha detto: “In questo studio vedo il mare”. Solo se ti sei fumato dieci canne o sei dominato dalla suggestione dell’infanzia, puoi intravedere il mare nello studio di Fazio». 

Qual è il personaggio che le somiglia di più? 
«Giorgiamaura, l’aspirante concorrente di un talent che come in una litania ripete: “Ho un sogno e lo voglio sognare, ho un obiettivo e lo voglio obiettare, ho uno scopo e lo voglio raggiungere”. Alla fine la vera Virginia è lì, nella tenerezza che incontra il dramma, nel crinale tra riso e pianto, nella figura incerta di una ragazza che nella sua cameretta della Montagnola sognava di diventare qualcuno. Senza sofferenza è difficile avere spessore. In un certo senso, l’attore comico deve sempre aver fatto la guerra con la vita per poter restituire qualcosa». 

Lei ha condotto la sua piccola guerra personale? 
«A modo mio. Sul lettino dello psicanalista sono stata, ma poi mi sono alzata in fretta. Ho visto il Re nudo e non è che mi sia piaciuto poi granché». 

Cosa le è rimasto di quell’esperienza? 
«Un talento che mi è stato sempre utile. Ho bisogno di chiedermi perché. In qualsiasi occasione». 

Che tv vedeva da bambina? 
«Quella di fine anni ’80. Drive in, Fantastico, Loretta Goggi, Celentano, Raffaella Carrà, tanto Pingitore. Cantavo le canzoni dei suoi programmi in piedi sul letto. Mia madre disapprovava». 

Tra pochi giorni debutterà con “Facciamo che io ero...”, la trasmissione più attesa della stagione. Sensazioni? 
«Ho dimenticato quali sono le cose che riguardano me stessa, sono già stanca e mi preoccupo. Quando dopo ore di prove gli archi sopraccigliari cadono a terra nel silenzio di un camerino mi trovo a domandarmi: ma ho pranzato oggi? Da quant’è che non chiamo mia madre? Abbiamo un rapporto un po’ simbiotico, io e i miei genitori. A mio padre spedisco tracce musicali come si fa con i fidanzati». 

Qualcuno la vede come l’erede di Fiorello. Con “Facciamo che io ero...” si aspetta di lasciare un segno? 
«Non ho un’ambizione così sconsiderata. Mi basterebbe che qualcuno dicesse: “Hanno fatto qualcosa di veramente nuovo con questo programma, peccato che sia già finito”. Non per egoismo, ma perché sono sicura di una cosa: Se non mi diverto io, non si divertono neanche gli altri». 
 
© RIPRODUZIONE RISERVATA