Valeria Golino: «Sono un soldatino che non diserta mai»

Valeria Golino: «Sono un soldatino che non diserta mai»
di Malcom Pagani
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Domenica 6 Agosto 2017, 00:42 - Ultimo aggiornamento: 20 Agosto, 17:56
L’estate di ieri, l’estate di oggi: «Mi facevano dormire durante il pomeriggio, nelle ore più calde e all’epoca mi ribellavo. Adesso quella pausa e quel sonno mi sembrano le invenzioni più belle che esistano». Valeria Golino, padre napoletano, madre greca, infanzia sui pontili delle navi, da giugno a settembre: «Quando abitavo in Grecia la mie vacanze erano italiane, quando vivevo in Italia, greche. Viaggiavo molto e i tre mesi del riposo sembravano almeno sei».

Laila e Luigi, i suoi genitori, si separarono presto: «E fu un dolore grande che ho provato a non far mai pesare sulle loro spalle. Erano in due paesi diversi e quindi per lunghi mesi, io e mio fratello, vedevamo o l’uno o l’altro. Era una situazione difficile che però mi ha forgiato». In partenza per il sud, con due costole rotte: «Vorrei dire che va tutto bene, ma fanno un male cane» e un mare di programmi.

Un nuovo film da regista in vista: «Dovrebbe intitolarsi “Euforia” e lo girerò in Ottobre». Il prossimo lavoro di Silvio Soldini, “Il colore nascosto delle cose”, fuori concorso a Venezia: «Una commedia sentimentale con Adriano Giannini come protagonista maschile e in cui io interpreto una donna non vedente. È stato molto bello tornare a lavorare con Silvio a quasi vent’anni di distanza da “Le acrobate”». E a stretto giro, anche un ruolo nella prossima fatica di Valeria Bruni Tedeschi: «Sarò sua sorella, ripasso il francese e inizierò tra 10 giorni». Golino guarda al passato con la diffidenza di chi si volta indietro senza compiacimenti: «Con la memoria ho un rapporto di pura gentilezza. Se mi chiedono, rispondo. Ma non la coltivo né la metto su un piedistallo».

Di un percorso iniziato quasi per caso all’inizio degli anni ’80, fitto di David, Nastri e Coppe Volpi, conserva l’orgoglio distratto di chi per contratto, al giudizio altrui si sottopone da sempre: «Robert Mitchum sosteneva che non esistono attori, ma soltanto attrici». 

E cosa intendeva? 
«Che indubbiamente l’ego e la percezione degli altri per chi fa il mio mestiere sono cose importanti». 
C’è chi giura che il suo sia un mondo di nevrotici. 
«Non c’è dubbio, come suggeriscono gli americani, è il regno della “Dysfunctional people”. Della gente che qualche disturbo, a vario titolo, ce l’ha. Facciamo un lavoro in cui esponi e metti in mostra non solo quel che sei, ma anche quello che potresti essere. E questo genera insicurezza, nevrosi, competizione». 
È un mestiere insicuro per definizione. 
«Ha anche qualità molto romantiche, ma dipende da tantissime variabili e quasi mai esclusivamente dal tuo talento». 
Lei ha detto di sé che quando è brava, è brava davvero. 
«Ma non ho parlato di quando non lo sono ed è capitato tante volte». 
E com’è Valeria Golino quando non è brava? 
«Opaca. Mi opacizzo, come in quel vecchio film di Woody Allen in cui il personaggio smarrisce sé stesso e va fuori fuoco». 
Sognava di fare l’attrice fin da bambina? 
«Veramente sognavo di fare la cardiologa. Lo dicevo a tutti, con una certa sicumera, già a sette anni. Il suono della parola sembrava importante, altisonante, pareva quasi che ti precedesse». 
Invece si è trovata a fare prima l’attrice e poi anche la regista. 
«Cerco di trasmettere un sentimento, comunico qualcosa, provo a far immedesimare chi mi osserva in un racconto. Al suo meglio, il cinema resta un mezzo ancora in grado di scuotere le coscienze, di far cambiare idea, di turbare chi lo guarda». 
Ricorda il suo primo turbamento cinematografico? 
«Come se fosse oggi. Vidi Bambi - che per me è un capolavoro assoluto di grazia e invenzione - e rimasi traumatizzata. Fu la prima volta che piansi per un film e anche la prima volta che feci i conti con un’ipotesi spaventosa per qualsiasi bambino: la morte della madre». 
Come è stata la sua prima adolescenza? 
«Un’adolescenza a volte in movimento e a tratti immobile. Ebbi una violentissima scoliosi e tra un’operazione e l’altra, circondata dai busti, dai medici e dalle diagnosi, passai a letto tantissimi mesi». 
Con il timore di non rialzarsi più? 
«I miei genitori mi proteggevano dall’idea di una guarigione impossibile, ma credo che il rischio esistesse. La prima operazione, a dodici anni e mezzo, nel 1978, la feci in America, a Chicago. In una città enorme in cui tutti parlavano una lingua che non conoscevo. Fu uno choc assoluto. In Italia all’epoca succedeva qualunque cosa e io ero lì, a Chicago, in un ospedale in cui a dire il vero c’erano bambini che stavano molto peggio di me. La dicitura del reparto, allegrissima, era “Crippled children”. Bambini con handicap. Ma i ragazzini nonostante le condizioni infelici, erano comunque allegri, rumorosi, attorniati da un affetto reale». 

Chi le fece compagnia? 
«Si alternarono mia madre e mio padre. Papà arrivò da Napoli con un libro di Nabokov sotto il braccio. E “Risata nel buio”, nei quindici giorni di permanenza americana, me lo lesse tutto, dalla prima all’ultima pagina». 
Un racconto di menzogne, di infedeltà, pieno di personaggi moralmente ripugnanti. 
«Una storia inquietante. Ma d’altra parte non è che a casa nostra la rassicurazione sia mai stata di moda». (Ride)
Lei nella vita l’ha inseguita? 
«Irrequietezza e inquietudine mi appartengono da sempre e le cerco tutte le volte che posso. Negli amici, negli amori, in quelli che mi vogliono bene». 
Ha una natura inquieta? 
«La mia natura è inquieta, ma non isterica. Qualche volta sarò isterica anche io, ma non ho i tratti distintivi dell’isteria. Nutro una sorta di caos calmo e cerco l’armonia nelle cose e negli altri. Se chi mi circonda sta bene, sto bene anche io. Il mio benessere dipende dallo stato d’animo di chi ho intorno. In generale tollero gli isterici a patto che il dato caratteriale si accompagni ad altro». 
A cosa? 
«Al talento, all’ intelligenza, all’affetto disinteressato. In quei casi non solo tollero la nevrosi altrui, ma ho proprio la pazienza di un cammello. Perché di persone non proprio equilibrate ne conosco tante e spesso le amo profondamente». 
C’è voluto equilibrio per gestire il successo? 
«A 14 anni mi sono ritrovata all’improvviso su una passerella come modella e con l’equilibrio interiore sono dovuta scendere a patti molto presto. Ma l’equilibrio non è un interruttore. Non lo accendi quando vuoi». 
E il successo? 
«Ho visto una vecchia trasmissione, di quelle belle trasmissioni che non si vedono più e in primo piano, Pasolini rispondeva a Biagi: “Cos’è il successo?” gli domandava il giornalista e Pasolini, acuto: “Il successo è soltanto l’altra faccia della persecuzione”». 
E lei è d’accordo con Pasolini? 
«Sono d’accordo con lui, ma mi fa ridere la frase: “il successo fa male solo a quelli che non ce l’hanno”. È chiaro che tutti aspiriamo a essere ricordati, stimati e a lasciare una traccia di noi. È un’aspirazione umana, normale, comprensibile. Poi, esistono molti tipi di successo. Il più difficile da gestire è quello in cui il niente si impasta con il nulla, quello in cui la conseguenza non ha una causa precisa, quello effimero che arriva senza un perché». 
La sua amica Iaia Forte sostiene che lei sia molto coraggiosa.
«Mi fa piacere che lo dica, ma credo di essere meno coraggiosa di quanto si pensi e sicuramente meno di quello che sembro». 
Le sue pavidità? 
«La paura del fallimento, di essere etichettata come una mediocre, di essere un bluff. E di essere ignava. In “Per amor vostro” di Gaudino interpretavo un personaggio il cui peccato principale era proprio l’ignavia e io l’embrione di quella affezione lo riconosco come una cosa mia. So che nella vita ho compiuto degli errori per non aver veramente voluto guardare a come stavano le cose in certe situazioni. Per essermi fatta da parte al momento di prendere una decisione importante o per aver temuto di essere invadente nei confronti degli altri». 
Se ne pente? 
«Per spostare le cose, l’invadenza a volte è necessaria. C’è una bellissima poesia di Rimbaud, “Canzone della torre più alta” in cui si dice “Par délicatesse J’ai perdu ma vie”».
Ci si rivede? 
«Moltissimo. Non significa che sia stata sempre delicata, ma di sicuro per voglia di non offendere o di non ferire l’interlocutore, ho smarrito per strada un po’ di verità. Anche non esprimersi, se la questione ti riguarda da vicino, è un indizio di pavidità». 
Ma anche di discrezione. 
«Infatti esistono cose sgradevoli che non direi a un altro neanche con una pistola puntata alla nuca perché non ho il mito della sincerità a tutti i costi. Se la sincerità ti aiuta a non star male, è la benvenuta. Altrimenti il gioco non vale la candela e rischia di trasformarsi in crudeltà gratuita. Le parole feriscono. Le parole hanno un peso. E io la crudeltà non riesco a recitarla, neanche al cinema. Trovo che sia un sentimento ottuso». 
Ribaltiamo il tavolo: se le dicono che ha recitato male o che il suo film è brutto? 
«Se non è inutilmente crudele mi prendo la critica, zitta e buona». 
Cosa imparò tra Cruise e Dustin Hoffman sul set di Rain Man? 
«A comportarmi come una professionista. All’epoca ero giovane e un po’ cialtrona. Non studiavo e giocavo spesso con il fuoco, dimenticandomi le battute. Penso che avrei dovuto dare più dignità a quell’ingaggio, rispettare meglio il patto iniziale. La frase che mi disse Barry Levinson, il regista, me la ricordo ancora». 
Cosa le disse? 
«“You have to learn the disciplin”. Devi imparare la disciplina». 
Aveva ragione? 
«Moltissima. Smisi di farmi le canne, mi preparai di più, cominciai ad assaporare anche il piacere di stare sul set. Con il tempo sono diventata un’altra, ma dopo, non subito. E non radicalmente. Ci sono voluti anni, c’è voluto uno sforzo di comprensione, di attenzione, di amore». 
Frammenti dell’esperienza americana? 
«Cruise era buono, gentile, adorabile. Ogni due settimane mi portava dei piccoli regali: un quadro o un orologio antico con dei biglietti gentili. Hoffman invece era di un perfezionismo maniacale. Sapeva di incarnare un personaggio difficile in cui bastava un niente per precipitare dal drammatico al ridicolo. Una volta, dopo aver visto i giornalieri, Dustin corse in bagno a vomitare. Era così scontento di quel che aveva fatto che non resse emotivamente. “In quella scena sono stato pessimo” ripeteva e - solo per dire del potere di un grande attore- pretese di rigirarla. Prendemmo aerei, tornammo sul set, ricominciammo da zero. Una prospettiva niente male, al suo posto starei sempre a rifare quel che ho fatto. Non c’è occasione in cui non pensi: “Avrei potuto recitare meglio”». 
I suoi rimpianti? 
«Non essermi saputa godere fino in fondo un premio importante o una grande esperienze alla Rain Man. A volte ho fatto scelte sbagliate, lasciare da un giorno all’altro la casa di Los Angeles o non prendere un passaporto americano sono stati errori». 
Se fosse rimasta in America forse non avrebbe ottenuto tutto quel che è arrivato dopo. 
«Ma si potrebbe sostenere anche il contrario. Un’opzione non escludeva l’altra. Sa qual è la verità?».
Qual è? 
«Che la vita pratica, il senso del possesso, la convenienza del momento, cosa devi fare per difendere ciò che hai professionalmente o economicamente, non hanno mai rappresentato la mia partita. Non era il mio campo e ne pago ancora le conseguenze. Avrei potuto essere più solida? Forse. Ho fatto sicuramente qualche cazzata, ma la verità è che non me ne è mai importato granché e non ci penso mai con la sensazione del rimpianto». 
Ha mai litigato con un regista? 
«Da Crialese a Gaudino, passando per Capuano, con quasi tutti i registi per me molto importanti con cui ho realizzato delle cose intense, è capitato. Anche adesso, con Laura Bispuri e Alba Rohrwacher, in Sardegna». 
Avete litigato? 
«Abbiamo discusso senza filtri ed è stato meraviglioso. Ci sono stati momenti di grande tensione ed altri in cui io e Alba, l’una la sentinella dell’altra, ci confessavamo le nostre inadeguatezze. Sui set ci sono regole non scritte, formalismi e limiti anche dialettici che di solito si tende a non superare. Noi li abbiamo superati tutti ed è stata un’esperienza nuova, veramente forte, direi unica». 
Lei sostiene che il tempo non ci cambi e che con l’età si torni a essere davvero quel che si è. 
«In realtà lo sostiene Proust e io mi accodo. Più invecchio e più mi rendo conto che torno a essere me stessa. Da giovani è tutto più nebuloso, più indefinito, ma se mi guardo indietro, anche nei cambiamenti, mi riconosco per quella che ero. Sa cosa mi dico sempre? “Ma come ho fatto a sopravvivere nonostante tutte le sciocchezze che ho fatto? Come ho fatto a sopravvivere a tanta ingenuità?” Poteva andarmi molto peggio». 
Si sente fortunata? 
«Con la fortuna ho un rapporto un po’ cattolico. Penso che le cose belle che mi sono accadute le abbia pagate poi per altri versi, da altri lati, con il dolore. Così come penso che dopo una grande fatica, arrivi sempre un premio. Non c’è nulla di razionale nella mia visione della fortuna. E mi rendo conto che abbia anche un vago sapore moralistico». 
Le chiedono sempre dei suoi amori veri e presunti. Intrusione indebita o normale dialettica per chi è sempre in copertina? 
«Tutte e due le cose. Mi difendo e mi concedo, come posso». 
Ha detto che senza un uomo accanto si sparpaglierebbe. 
«Ho sempre pensato che fosse così perché essendo stata sempre in coppia per tantissimo tempo ho creduto che un compagno fosse essenziale per arginarmi e non farmi andare alla deriva. Però adesso sono sola e non mi sento né perduta, né sparpagliata. Resta la tentazione». 
Quale tentazione? 
«Quella dell’oblìo, della deriva, dell’abbandono». 
E la sublimerà mai? 
«Non ho il tempo. Ma quale oblìo? Faccio una vita da soldatino e chi veste la divisa, se non diserta, alla deriva, anche se lo desidera, non va mai».
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