La sfida degli ultimi dittatori: un Paese su quattro nel mondo è controllato da regimi dispotici

La sfida degli ultimi dittatori: un Paese su quattro nel mondo è controllato da regimi dispotici
di Marco Ventura
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Domenica 11 Ottobre 2015, 23:03 - Ultimo aggiornamento: 12 Ottobre, 08:48
Le dittature vivono di scenografia. In Corea del Nord, con la clamorosa parata militare di due giorni fa voluta dal leader e “figlio padrone” Kim Jong-un, la scenografia ha assunto aspetti tra la sfida e il kitsch. Ben 15 aerei militari hanno disegnato in cielo il numero 70 come gli anni dalla fondazione del Partito dei Lavoratori. I tratti di colore che celano atti di crudeltà quotidiani sono costanti di molti regimi autocratici. Ieri sera da Minsk, la “Parigi dell’ex Urss”, filtravano i risultati delle elezioni che vedrebbero Lukashenko sfiorare il 90 per cento di consensi. Governa dal 1994. Guardando più a Sud, sembrava che con le primavere arabe una parte di storici dittatori avesse drasticamente ridotto la porzione di pianeta sotto la cappa del controllo personale o familistico di leader incontrastati, con o senza il paravento di finte elezioni. Infatti. Scomparso il Colonnello Gheddafi al quale ha appena dedicato un libro tra lo psicotico-narrativo e lo storico-visionario lo scrittore algerino Yasmina Khadra (“L’ultima notte del Rais”, Sellerio).



Defenestrato il Faraone Mubarak che deteneva un potere apparentemente senza limiti in Egitto. Costretto alla fuga il tunisino Ben Ali. Ridotto a controllare poco più del circondario della capitale Damasco e i paesini d’origine il siriano Assad.



A Mubarak è subentrato però non un governo democratico ma un generale, Al Sisi, che ha messo fine alla fallimentare esperienza integralista dei Fratelli Musulmani. In Libia regna il caos. La Tunisia lotta per mantenere la propria autonomia laica.



LA LONGEVITÀ Nel resto del mondo, i dittatori continuano a governare in decine di Paesi, più o meno un quarto del totale secondo i calcoli di Freedom House, think tank specializzato in analisi del Dna democratico. Alcune “guide” o capi o boss o rais o generalissimi non hanno la stessa tragica fama di Gheddafi o dell’iracheno Saddam Hussein. Ma non per questo i loro regimi sono meno duri o meno longevi. Basti pensare a Robert Mugabe, padrone dello Zimbabwe, in sella dal 1980, messo all’indice da Amnesty International per aver fatto torturare o uccidere in un solo anno, il 2002, 70mila persone. Espulso dal Commonwealth e bollato come “persona non grata” da Unione Europea e Stati Uniti, ha però un lasciapassare che gli consente di partecipare in Europa a eventi come i vertici della Fao (è stato a Roma nel 2008).



E ha partecipato addirittura alla cerimonia di beatificazione di Giovanni Paolo II, ospite non dell’Italia ma del Vaticano. Altro dittatore africano il presidente del Sudan, il “carnefice” del Darfur Omar Hasan al-Bashir, protagonista di una guerra civile da oltre 2 milioni di morti e primatista come capo di Stato condannato dalla Corte penale internazionale. Nel “suo” Sudan vige la legge coranica, la Sharia. Gli oppositori lo accusano di essere arrivato a “progettare la carestia” nelle aree del Paese non sotto il suo controllo. Al-Bashir è riuscito anche a tradire i terroristi ai quali aveva dato asilo, da Bin Laden a Carlos.



Emblematico, seppure di dimensioni più contenute, il caso di Teodoro Obiang Nguema Mbasogo, dal ’79 al potere nella Guinea Equatoriale, un piccolo Paese nel quale però sono stati scoperti giacimenti di petrolio e i petrodollari finiscono direttamente sul conto del dittatore che si giustifica dicendo che in questo modo può vigilare sulla corruzione. Dall’Eritrea arrivano in Europa attraverso la Libia flussi ininterrotti di giovani profughi costretti ad arruolarsi ancora minorenni nel partito-esercito del dittatore Afewerki. Se da Sud l’Europa è “assediata” dalle dittature africane, a Est dominano figure che hanno preso le redini di piccoli o grandi Stati ex sovietici. Oltre al bielorusso Lukashenko, al potere da 21 anni come capo del nuovo Stato emerso dalle macerie dell’Urss, ecco la Repubblica del Turkmenistan dove i tre poteri (legislativo, esecutivo e giudiziario) sono accentrati nelle mani del presidente, Gurbanguly Berdimuhammedow, l’erede di Nyazov, e dove i nomi della famiglia presidenziale risultano addirittura nel calendario.



L’ECONOMIA La proroga del mandato presidenziale è un altro classico dei regimi.
Islom Karimov è al potere in Uzbekistan dal 1990 grazie a opachi referendum di proroga. Figure carismatiche detengono saldamente lo scettro del governo in Paesi come il Kazakistan con Nursultan Nazarbayev o l’Azerbaijan con gli Aliyev. Paesi ricchi, dove l’economia cresce e che si presentano al mondo come regimi “illuminati” e dediti al mecenatismo. Infine c’è la deriva del Sudest asiatico. In Myanmar la leader della dissidenza Aung San Suu Kyi non può correre alle elezioni perché i figli non sono di nazionalità birmana. Nel 2009 la Thailandia era considerata da Freedom House semilibera. Oggi domina l’élite militare-monarchica. E solo Indonesia, Malesia e Filippine superano a malapena l’esame di libertà.
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