«Ulisse, il primo eroe che piange», Emma Dante porta a Spoleto “Odissea a/r” con gli attori del suo laboratorio

«Ulisse, il primo eroe che piange», Emma Dante porta a Spoleto “Odissea a/r” con gli attori del suo laboratorio
di Fabio Ferzetti
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Domenica 19 Giugno 2016, 00:05 - Ultimo aggiornamento: 26 Giugno, 16:19
L’Odissea secondo Emma Dante. Inevitabile pensare a Penelope. Invece la grande regista palermitana ha scelto Telemaco, il figlio di Ulisse che nei primi canti del poema omerico parte alla ricerca di quel padre che quasi non conosce e cercandolo cresce, matura, diventa uomo. Di qui il titolo dello spettacolo, in scena dal 6 al 10 luglio al festival dei Due Mondi di Spoleto: Odissea a/r. Che in quell’ironico “andata e ritorno” condensa «tutte le grandi domande sull’esistenza», come ci dice la regista da Palermo. «Il viaggio che ognuno di noi deve compiere, la ricerca delle origini, la necessità di forgiarsi un destino». 

C’entra anche la costruzione dell’identità maschile, oggi così problematica e vacillante?
«Certamente. Infatti non racconto tanto il viaggio di Odisseo quanto ciò che lascia e ciò che trova quando torna, in particolare il figlio, che ritrova ventenne senza averlo visto crescere. Tutto questo non è poi così lontano dal mio teatro. Quando si dice Odissea si pensa sempre ai canti sul viaggio di Ulisse, a Circe, Calipso, Polifemo, la parte più fantasmagorica, con tutto il suo corteo di figure umane e sovrumane, ninfe, mostri. Ma anche la Telemachia è interessantissima perché mette padre e figlio a confronto. E vede Telemaco scoprire la sua potenza di uomo capace di fronteggiare i Proci, quegli energumeni sguaiati che assediano la madre e in scena parlano uno strano impasto dialettale».

Come ha lavorato sul testo?
«In tutta libertà. Con i classici bisogna essere un po’ incoscienti, tanto hanno le spalle larghe. Mai essere provocatori per forza. Un classico è tale proprio perché non smette di porre domande, inutile forzare la mano. Lo spettacolo poi, già visto in forma di studio all’Olimpico di Vicenza, nasce dal laboratorio che conduco da due anni con gli allievi della Scuola dei Mestieri dello Spettacolo al Biondo di Palermo. L’Odissea era l’ideale per far lavorare questi 23 giovani tra i 18 e 28 anni che fanno tutto, cantano, ballano, recitano, si cuciono perfino i costumi per imparare ad averne cura».

Ci sono “effetti speciali” come le bambole meccaniche della Cenerentola vista all’Opera?
«No, no (ride)! Lo spettacolo è visionario, più fisico che testuale, ma la sua forza principale sono proprio questi 23 ragazzi che da due anni lavorano insieme e vanno tutti nella stessa direzione. Come sempre, o quasi, non ci sono scenografie. I paesaggi, l’interno del palazzo, li raccontano i corpi degli attori, le loro “geometrie esistenziali” come direbbe l’amico Franco Battiato. In scena ci sono solo quattro scatole nere ai lati del palco da cui gli attori estraggono l’occorrente come dal cilindro di un mago. Un costume, una vela, due scarpe, una trombetta da stadio... E poi si canta, molto. Una canzone l’ha scritta Bruno Di Chiara, cioè Odisseo, un palermitano di grande talento. Le altre sono di Serena Ganci, con cui avevo già fatto l’Intervista impossibile a Polifemo, per restare in materia...».

Chi sono i suoi allievi, da dove vengono?
«Alcuni hanno storie incredibili. Telemaco, cioè Alessandro Ienzi, palermitano, a 25 anni era un avvocato lanciatissimo in un grande studio legale a Roma. Ma quella vita non gli piaceva, per una somatizzazione aveva perso addirittura la vista, poi ha scelto il teatro ed è rinato».

Non siamo lontani da quella maturazione virile che è al cuore di Odissea a/r...
«Infatti. Lo spettacolo in fondo racconta lo sbocciare di un ragazzo che per diventare uomo deve affrontare il mare, o il male, che nell’Odissea sono la stessa cosa, si fondono in ogni momento. Ma il mare, e il male, sono anche attraenti, affascinanti... Quando Telemaco, spinto dagli dèi, si decide a partire con 20 navi, sa già che non troverà il padre ma che quel viaggio lo deve fare, deve lasciare la madre, il palazzo, affrontare l’ignoto... Non come certi ragazzi di oggi che si separano dalla moglie e tornano a casa dalla mamma...».

Nelle note di regia insiste sull’umanizzazione del mito e descrive Ulisse come un eroe «piccolo e bugiardo»...
«Beh, di fronte a certi lati maschili divento un po’ perfida... Ma “piccolo” sta per fragile, umano. In fondo Ulisse è il primo eroe capace di lacrime. Nella prima scena appare con la faccia immersa in una bacinella, che è insieme il mare e il suo pianto, perché non direi mai a un attore vai lì e fai finta di piangere.... Dunque Ulisse non è il guerriero tutto d’un pezzo che si mette sul piedistallo e uccide tutti. È anche capace di sedere in riva al mare e piangere a calde lacrime pensando alla sua famiglia. Ma è piccolo perché dice un sacco di bugie, è pronto a tutto per i suoi scopi. E poi, insomma, dopo quel gran pianto, arriva Calipso che se lo porta giù nella sua grotta profonda per consolarlo, e lui dietro come un cagnolino...».
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