Trivelle, urne aperte con il rischio quorum: le verità dietro al polverone fatto di bugie e mistificazioni

Trivelle, urne aperte con il rischio quorum: le verità dietro al polverone fatto di bugie e mistificazioni
di Oscar Giannino
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Domenica 17 Aprile 2016, 00:10 - Ultimo aggiornamento: 09:22

Oggi siamo chiamati a esprimerci sull’unico quesito energetico rimasto in campo tra quelli depositati da 10 Regioni, poi diventate 9, di cui 7 a guida Pd e 2 del centrodestra. Siamo ovviamente rispettosi delle scelte che ciascuno ha maturato. Ma poiché secondo molte fonti tantissimi sono ancora gli indecisi, è il caso di riprendere in considerazione almeno alcuni dei punti sui quali riflettere.

COME
Si può votare in cinque modi. Il primo è astenersi, scelta che è assolutamente e programmaticamente legittima se considerate il referendum specioso, artificiosamente esteso oltre il merito della questione al voto, sia per fini politici che non vi convincono e che nulla hanno a che fare con le concessioni estrattive, sia perché siate convinti che in realtà il quesito riguarda una quota del tutto trascurabile del fabbisogno energetico italiano, e cioè pensiate che come spesso accaduto nei referendum italiani si prende un capello in mano credendo che tagliarlo faccia cambiare capigliatura. Astenersi significa mirare a invalidare il referendum, visto che secondo l’articolo 75 della Costituzione vigente è condizione del suo legittimo effetto che partecipino alla urne almeno la metà più uno dei circa 53 milioni di elettori italiani.

Altrimenti, com’è ovvio, potete recarvi alle urne e votare ”sì” o no” all’abrogazione, consegnare bianca la scheda, o annullarla senza apporvi un segno inequivocabile a favore del ”sì” o del ”no”, bensì di altro tipo. In tutti questi quattro casi, concorrete alla validità del referendum. Una volta ritirata la scheda al seggio, anche bianche e nulle fanno quorum.
 
IL QUESITO
Ci si chiede di abolire la norma con la quale si è estesa la durata delle concessioni in mare entro le 12 miglia dalla costa fino alla durata di vite utile del giacimento. Nuove concessioni entro le 12 miglia sono già vietate. E su questo punto vanno dette le cose come stanno, i referendari hanno già vinto a tavolino: perché il governo tentando di invalidare il referendum ha fatto marcia indietro nella legge di stabilità 2016 rispetto alla svolta che aveva attuato nel 2014, e lo ha fatto senza aprire un dibattito, né nel Pd né nel Paese. Il quesito restante sul quale si vota oggi è frutto del fatto che il governo scrisse male le norme in legge di stabilità, altrimenti con ogni probabilità avrebbe fatto propria anche la modifica chiesta nel referendum odierno: una pessima dimostrazione di come, in un paese ad altissima dipendenza energetica, sulle fonti nazionali si continui a non discutere seriamente, ma solo in maniera strumentale. Con i sostenitori delle rinnovabili contrari per principio alle fossili, quando sappiamo benissimo che per lungo tempo continueremo ad aver bisogno delle fossili, mentre il rafforzamento delle rinnovabili già avviato deve avvenire senza dimenticare che l’eccesso di sussidi è antieconomico, ed è per questo che abbiamo dovuto fare retromarcia rispetto all’eccesso di stanziamenti concesso per anni alle rinnovabili nel cosiddetto “conto energia”.

SE VINCE IL SI
Quanta estrazione si ferma e quando, se vince il sì? Le concessioni oggi attive interamente entro le 12 miglia sono 33 su un totale di 69 marine, più altre 11 in parte entro le 12 miglia. Queste 44 concessioni coinvolgono 90 piattaforme per 484 pozzi: il petrolio è ricorso nella campagna referendaria evocando i danni di possibili sversamenti in mare, ma solo 4 su 44 concessioni sono petrolifere, il resto è solo gas. 30 concessioni sono dell’Eni, 5 di Edison, 5 di Adriatica, 4 di Ionica Gas. L’estrazione di gas entro le 12 miglia di cui si parla è pari al 3% del fabbisogno nazionale, quella di petrolio pari a un insignificante 1%. Rileggete questi numeri, perché, pur nel pieno rispetto delle idee di ciascuno, dicono da soli la totale marginalità del referendum, mentre non lo è affatto per concreto impatto sul mix energetico italiano. In ogni caso, se vince il sì, a seconda della durata precedente delle concessioni esse dovranno negli anni fermarsi anche se c’è ancora gas da estrarre: oltre 200 pozzi su 484 si fermerebbero in questo 2016, altri 120 entro il 2018, ne resterebbero 90 al 2024, fino allo stop totale nel 2034.

GLI EFFETTI ECONOMICI
Sono di tre tipi: i danni diretti alle imprese energetiche, l’impatto sugli investimenti energetici previsti, nonché sugli occupati nella filiera. I danni immediati alle compagnie che gestiscono i pozzi attuali entro le 12 miglia assommano a circa 1,5 miliardi, di cui 1 miliardo per l’Eni. Gli investimenti – il più, da compagnie straniere –, che si erano attivati quando il governo nel 2014 abolì i divieti a ricerca ed estrazione di fonti fossili posti dal centrodestra e dal governo Monti, erano nell’ordine dei 16 miliardi di euro. Moltissimi avrebbero riguardato proprio il mare che bagna le regioni meridionali: ed è sentendosi esclusi dal governo centrale nella contrattazione con tali compagnie, che le Regioni sono in realtà scattate sull’iniziativa referendaria. Dopo la retromarcia governativa, gli investimenti previsti erano scesi verticalmente, ne restavano circa 6 miliardi. Se vince il sì, spariscono anche quelli. Gli occupati direttamente interessati dal quesito odierno sono circa 11mila, e si arriva a 30 mila comprendendo l’indotto. Certo, i sostenitori del referendum dicono che vanno reindirizzati alle fonti rinnovabili. Sta di fatto che la tecnologia e le specializzazioni italiane nella ricerca e nell’estrazione marina di fonti fossili sono un’eccellenza mondiale, e credere che costruire e gestire piattaforme e pale eoliche o impianti per sfruttare le correnti marine sia la stessa cosa, può pensarlo o chi è in malafede o chi non sa di che si parla. Bisogna infine considerare l’effetto che la cessata estrazione avrebbe in termini di minori royalties incassate dallo Stato centrale e dalle autonomie. Nel 2015 l’ammontare è stato di 325 milioni di euro, con un gettito da imposte di ulteriori 580 milioni. E’ vero tuttavia che scenderebbero progressivamente, e che quelle citate sono le cifre complessive su quanto si estrae anche oltre le 12 miglia e a terra. Di sicuro invece, rinunciare a quella sia pur minima quantità di petrolio nazionale significherebbe dover ricorrere a petroliere che giungano dall’estero nei nostri terminal portuali per circa 500mila tonnellate, e i dati storici dicono che è ambientalmente più rischioso questo, di quanto non sia stata l’estrazione nel nostro paese. Mentre, se pensiamo al gas, eliminazione dell’estrazione entro le 12 miglia di mare comporta l’aggravio dei nostri conti esteri per l’equivalente di 1,9 milardi metri di cubi di metano importati: Algeria e Russia commosse ringraziano.
Riflettete su questi dati.

Un paese iperdipendente dall’estero per il fabbisogno, comunque la pensiate sul referendum, dovrebbe attuare scelte di fondo con una serietà complessiva molto diversa da strappi annuali a favore o contro quella fonte, innestandovi sopra metasignificati politici e lotte interne di partito, come quelle che avvengono su questo tema nel Pd tra presidenti di Regioni e presidente del Consiglio. O almeno: questa è la nostra opinione, e di conseguenza il modo in cui guardiamo all’enorme polverone alzato sul quesito su cui si vota oggi, rispetto al suo reale significato.

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