Steno, quando l’Italia sapeva ridere di sé: una grande esposizione ricorda il regista a cento anni dalla nascita

Steno, quando l’Italia sapeva ridere di sé: una grande esposizione ricorda il regista a cento anni dalla nascita
di Malcom Pagani
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Lunedì 10 Aprile 2017, 00:02 - Ultimo aggiornamento: 16 Aprile, 15:34

Stefano che alla morte del fraterno amico Longanesi abbassò le tapparelle e si chiuse in silenzio a piangere per un giorno intero. Stefano che divideva il pomeriggio con Ercole Patti, Mario Soldati, Ruggero Maccari e Pietro Germi. Stefano che di cognome si chiamava Vanzina e aprì le porte di Roma a Fellini e quelle del cinema ad Alberto Sordi e a Monicelli. Come da iniziale dell’acronimo che scelse per firmarsi, Steno era un signore. Un uomo colto che sapeva non prendersi sul serio. Un umorista. Un disegnatore. Uno scrittore. Un genio che non essendo stato fulminato in vita dalla moderna affezione dell’autocelebrarsi, lasciò che gli altri dimenticassero di farlo trattandolo- dio li perdoni- da regista trascurabile. Fedele al desiderio che Dino Risi proiettava su Nanni Moretti: «Nanni, spostati e lasciami vedere il film», Steno si mise a lato della Storia e la trasformò in immagini.

LA GENEROSITÀ
Lasciò spazio a chi credeva meritasse il proscenio più di lui e da generoso, diede vita a maschere memorabili, a generi, ad apologhi acuti sulla società che apparentemente guardavano alla sola commedia e in realtà raccontavano infinitamente di più. Erano tempi quelli, in cui gli artisti riuniti in redazione (la fucina inventiva del Marc’Aurelio, dove Steno albergava con gente del valore di Campanile, Zavattini, Metz, Marchesi) giocavano tra loro e ogni tanto- litigando su un solo sacramento: «Fa ridere o no?» si accapigliavano facendo volare come ricordò un successivo affiliato, Ettore Scola: «Qualche sonoro vaffanculo». Tutti troppo spiritosi per offendersi, troppo intelligenti per provare rancore, troppo concentrati sullo scambio perpetuo di idee, spunti e copioni per dare importanza al nulla che si impasta con il niente. Era un mondo di cose tangibili, meno geloso delle rispettive appartenenze, capace di soffocare le competizioni e di riunirsi intorno al desco nelle trattorie romane o a elaborare soprannomi feroci da Rosati (Vincenzo Cardarelli era “il più grande poeta morente”, Alberto Moravia, per via dell’andatura incerta, pencolante e chapliniana, “l’amaro Gambarotta” e così via) e a prospettare il futuro senza altra ambizione che non fosse narrare in pellicola la (ri)nascita di una Nazione. Ora i figli di Steno, Carlo ed Enrico Vanzina, due tipi umani che a loro modo, nonostante il segno profondo, anticipatorio e sociologico inciso nella produzione cinematografica dell’ultimo trentennio, sono stati trattati con il disprezzo riservato al padre, reagiscono all’oblìo e mentre auspicano giustamente l’introduzione nel codice civile del «reato di memoria», contrastano la distrazione collettiva con la memoria stessa. Hanno ragione da vendere e per non dar fiato al più sterile dei lamenti, si sono industriati per mettere in piedi una mostra preziosa. Da martedì 11 aprile, fino al 4 giugno, alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea di Roma, si potrà quasi tornare in quell’appartamento luminoso dei Parioli da cui Carlo ed Enrico bambini vedevano passare la Cadillac di Totò e il padre rassicurava la moglie sulle sue apparenti attitudini da Oblomov: «Che fai? Guardi fuori dalla finestra? Perdi tempo?», «Non vedi? Sto lavorando». Sarà come ritrovarsi fuori tempo massimo, in poltrona. Il titolo: “Steno, l’arte di far ridere. C’era una volta l’Italia di Steno. E c’è ancora” prova a sintetizzare un percorso che prende il via a Seconda Guerra Mondiale in pieno svolgimento con Macario e si conclude in una stanza della clinica Mater Dei, in un giorno di marzo del 1988 per un maledetto ictus. Una bella esposizione, forse, non basterà. Troppa vita, troppi incontri, troppi fili per orientarsi nel labirinto di una produzione vastissima. In mezzo infatti, non scorrono solo i duetti memorabili tra Franca Valeri e Sordi, l’americano a Roma (che Steno volle a tutti i costi con Albertone, nonostante i finanziatori pretendessero Walter Chiari), i biscazzieri di Capannelle con Proietti e Montesano o Mariangela Melato in vestitino rosso sui autobus pieni di impudichi sporcaccioni, il lancio dei poliziotteschi (con il raro coraggio di firmarsi con il proprio nome, in un’epoca in cui la polizia era “fascista” a prescindere) o la saga di Piedone, ma- detto con trattenuta enfasi, come sarebbe piaciuto a Steno, la storia d’Italia, d’Europa e del mondo.

OCCHI SUL MONDO 
Steno le attraversa con gli occhi spalancati sul presente, senza mai rinserrarsi nelle proprie convinzioni, con un’apertura mentale che stupisce e uno sguardo acuto e attento sulla vita che lo circondava. 1943, un frammento a caso: «Ieri, martedì a mezzogiorno, mi trovavo a piazza Colonna con Longanesi quando si sparse la balla che Hitler si era accoppato. In dieci minuti la notizia ha fatto il giro di Roma. Siamo stati asserragliati dentro Palazzo Sciarra. Tedeschi che si baciavano per le strade. Davanti ad Aragno arrestavano Pannunzio per pubblico schiamazzo». O ancora, in un’ironia a rischio di scomunica vaticana: «Auspico lo Stato pontificio per poter almeno farne con calma la collezione di francobolli». Ora che la collezione è diventata lui e il suo girovagare da mèntore sempre pronto a sottrarsi meriti per destinarli ad altri, viene ricordato e abbracciato, non solo dai baristi del “Bar di Mandrake” abituati a festeggiarlo come un messia laico tra le tazzine a due passi da Piazza Venezia, ma da un’intera città, esiste chi, anche tra gli antichi detrattori, si preoccupa di restituirgli qualcosa. Meglio tardi che mai? Steno li avrebbe perdonati a prescindere. Come Molière, il signor Vanzina sapeva ridere. Delle avarizie, della meschinità, delle grettezze e dell’invidia dei mediocri. 

 

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