John Simenon: «Mio padre un vero Casanova»

John Simenon: «Mio padre un vero Casanova»
di Valentina Venturi
5 Minuti di Lettura
Giovedì 5 Gennaio 2017, 00:00 - Ultimo aggiornamento: 7 Gennaio, 16:31
Uno scrittore che ha tutto: soldi, fama e donne. Eppure non è soddisfatto. La sua vita si macera su un unico pensiero che presto diventa ossessione: vincere il premio Nobel. Sembra un romanzo di Georges Simenon scritto su... Georges Simenon. A riportare alla memoria eventi, incontri, ricordi e pensieri è il figlio John.

Il giorno dopo la scomparsa dello scrittore Simenon, avvenuta il 4 settembre 1989 a Losanna, è uscito un famoso articolo su Le Figaro dal titolo “Quei cretini del Nobel che non mi hanno incoronato”, in cui si descrive una sorta di j’accuse contro il comitato svedese. Possiamo dire che fosse un’ossessione per suo padre?
«Senza ombra di dubbio è stato un rimpianto non averlo vinto. Sarebbe stato l’unico giusto riconoscimento al valore letterario e culturale di tutta la sua opera. A noi figli diceva sempre che tutti i premi letterari non sono altro che medaglie da mettere al collo delle mucche “sono le vacche e i tori gli animali a cui si da una medaglia...”. Però il Nobel lo avrebbe voluto vincere; forse è stato il suo unico, profondo, rammarico, dal punto di vista artistico, s’intende».

Il Nobel alla letteratura nel 2016 è stato assegnato a Bob Dylan, scatenando ovvie polemiche. Lei cosa ne pensa?
«Dylan ha meritato di vincerlo, non ho dubbi. Sono anche convinto che chi assegna i premi non sempre sa cosa sta facendo: diceva mio padre che al 50 per cento si sceglie il giusto candidato e al 50 no. Quello a Dylan ha una sua logica, in quanto la letteratura non è fatta soltanto dai romanzi».

Suo padre ha scritto centinaia di libri, ha venduto miliardi di copie, si ipotizza che la tiratura complessiva delle sue opere superi i settecento milioni di copie, da cui sono stati tratti almeno 80 film. Come è possibile abbinare una tale quantità al talento?
«Si definiva un artigiano delle parole e a noi figli ha sempre ripetuto che esiste “il mestiere dell’essere umano”: l’etica nella vita e nel lavoro. Lavorava sodo ed era dell’idea che solo il 10% della fama dipendesse dal talento, il restante 90 proveniva da una commistione di serietà, impegno e dedizione».

Ben 250 libri, 250 storie, un “marchio di fabbrica” inconfondibile. Come si potrebbe definire il suo stile?
«Anni fa un critico ha trovato la definizione migliore: mio padre non era uno scrittore francese, ma un autore russo che scriveva in lingua francese. Papà aveva la rara capacità di cogliere le sfumature dell’essere umano proprie dei russi, scrivendole con una cura profonda della musicalità, tipica francese. Se infatti si leggono ad alta voce le sue opere ci si rende conto che hanno un ritmo specifico, una musicalità rara che nasce proprio dall’impegno certosino che metteva nello scegliere le parole da usare».

In Italia Simenon è stato lo scrittore più tradotto dopo Shakespeare. Un caso o si tratta di un feeling particolare?
«L’Italia è il “Paese di Simenon”: è stato il primo, subito dopo la Francia, ha pubblicare i romanzi del commissario Maigret. E ancora prima, fu il solo Paese a pubblicare molte delle sue storie, scritte utilizzando uno pseudonimo. Amava profondamente l’Italia e considerava Arnoldo Mondandori uno dei suoi migliori amici».

Non solo Mondadori: è nota la grande amicizia e stima reciproca tra Simenon e Federico Fellini, come testimonia anche lo scambio epistolare pubblicato nel 1998 da Adelphi “Carissimo Simenon. Mon cher Fellini”. Cosa ci può raccontare del rapporto tra queste due personalità così intrinsecamente differenti?
«L’episodio delle “10mila donne”. Quando a Fellini fu chiesto di partecipare alla promozione di “Casanova”, un film che fece per parlare di un uomo che disprezzava, accettò ponendo una condizione, immaginando fosse impossibile da realizzare: che si svolgesse un’intervista doppia con il suo amico Simenon. Quello che Fellini ignorava era che all’epoca io lavorassi per il produttore e distributore del film, il quale mi chiese di organizzare l’intervista. Mio padre aderì con piacere. Quindi si incontrarono a casa nostra a Losanna e passarono diverse ore scambiandosi affascinanti aneddoti sui rispettivi mestieri, sulle visioni e gli approcci alla creazione, che diventarono l’argomento per un articolo uscito sull’Espresso. Alla fine della discussione Fellini disse che credeva che il suo personaggio principale, Casanova, fosse stato un vero e proprio “stronzo”. Ma mio padre ribatté che poco più di cento donne nella vita di un uomo non fossero cosa di cui vantarsi. Nella sua compulsiva ricerca della precisione, cercò di farsi tornare alla memoria il numero di donne con cui aveva “fatto l’amore” in tutta la sua vita, arrivando alla cifra ampiamente arrotondata di 10.000. Ebbene questa è l’unica dichiarazione che ancora oggi si ricorda, di quello che altrimenti passerebbe alla storia come uno straordinario e raro scambio di opinioni tra due giganti del secolo scorso».

Un altro modo per rimarcare l’amore reciproco risiede nella decisione della cineteca di Bologna di dare vita ad centro studi dedicato a George Simenon. In precedenza non si era parlato di Liegi quale sede?
«Come è noto, il tango di balla in due... A Liegi non mi hanno dato la sensazione di essere realmente interessati al centro museale, cosa che invece a Bologna hanno accolto con entusiasmo e partecipazione. Sono dinamici ed entusiasti! Io desidero fermamente condividere il modo di lavorare di mio padre».

Per noi italiani il commissario Maigret può essere solo Gino Cervi. Eppure le due puntate trasmesse dalla britannica Itv a marzo scorso, hanno come protagonista Rowan Atkinson. Una scelta azzardata? 
«Il segreto risiede nell’empatia recitativa. Rowan è un attore completo e in quanto tale riesce a trasformarsi in Maigret. I telespettatori si renderanno conto che dopo qualche istante lui è il commissario, dimenticando tutti gli interpreti del passato. Sono convinto che si possa preferire un attore su un altro, per esempio Jean Richard piaceva molto in Francia, ma non era il mio preferito. Alla fine non conta le physique du rôle, ma solo quanto un attore riesce a portare sullo schermo la grandissima umanità dolente del commissario Maigret».
 
© RIPRODUZIONE RISERVATA