Sessantotto, il falso mito depurato dalla violenza

Sessantotto, il falso mito depurato dalla violenza
di Mario Ajello
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Venerdì 2 Febbraio 2018, 00:11 - Ultimo aggiornamento: 23:20
Il ‘68 una cosa buona l’ha prodotta: il totale disinteresse dei ragazzi d’oggi verso il ‘68. Non ci sono giovani, eppure erano attesissimi, nell’adunata amarcord sul movimento di protesta di 50 anni fa, che s’è svolta ieri all’università La Sapienza. Ed eccoli i rioccupanti, i reduci che occuparono allora la facoltà di lettere e ora ci si riaffacciano per celebrare se stessi. Sono imbolsiti, più rotondi (non certo perché sono riusciti, come pretendevano, a «épater le bourgeois»), con i capelli bianchi e le barbe ereditate dagli anni combat e diventate canute e caduche. C’è chi arriva appoggiandosi alle stampelle. E chi, un ultrasettantenne ancora boccoluto, sfoggiando una kefiah al collo e sulla testa un basco da Che Guevara de’ noantri all’apparenza mai lavato in questi 50 anni. Maestro di cerimonie, Paolo Flores d’Arcais, ex trotzkista, ora direttore di Micromega e post-girotondino come Pancho Pardi, che gli siede affianco. E vola alto Pancho: «Il ‘68 è stato un momento di grande educazione all’interpretazione delle cose sociali, non scritte, non dette, non rappresentate. Fu un nuovo tipo di ermeneutica». Applausi commossi. 

LA CACIARA
Qualcuno ha ancora la sciarpa rossa al collo, ma vabbè: dev’essere un omaggio a Mario Capanna, che non se la sfilava mai. Uno dei rari squarci di divertimento è la comparsata di Carlo Verdone, diciassettenne disimpegnato nel ‘68, secondo cui quella stagione finì, «in caciara», undici anni dopo, nel 1979, al festival dei poeti sulla spiaggia di Castelporziano. Dove a un certo punto fu portata una minestra, «come atto politico che unisce e aggrega», narra Verdone, «e un miserabile capellone nudo urlò: anche pasta e facioli è poesia!». 
Sembra quasi un intruso Verdone. Non come Franco Piperno, uno dei cosiddetti cattivi maestri, che ormai ha la voce flebile da vecchietto, ma ancora crede di esercitare il fascino da leader concupito che fu. «Le assemblee di allora», si lascia sfuggire il pensatore di Potere Operaio, «non erano scarse come questa. Erano piene di persone che volevano stare insieme». E anche questa è poesia, sia pure senza «facioli».

Ma occhio al palco dei relatori, ci sono due ragazze ventenni. Appartengono al gruppo di «ggiovani», che animano il giornale cartaceo «Scomodo»: Roma bene «de sinistra». Educatamente spiegano che del ‘68 più o meno se ne infischiano ma dal birignao sinistrese non sono riuscite a salvarsi. La prima, Camilla Caglioti, è molto «cioé... cioé... cioé...». Dice che «la nostalgia è reazionari», ossia demolisce i presenti. Ma poi li scimmiotta: «L’università non è più dei baroni ma dei privati». E ancora: «Ci dobbiamo ribellare dalle forme e dalle pratiche di controllo, anche quelle invisibili e segmentate». Tocca all’altra ventenne, Laura Cocciolillo: «La probbblematica...». E comunque, «la cultura è rivoluzionaria», ma «la nostra generazione non appartiene quasi più a nessun epoca. Dove siamo ora? E’ questo che sto cercando di capire». Verdone non è ancora in sala, e così s’è perso questa scena che sembra presa da «Un sacco bello», mentre Piperno - quante no ho fatte, quante ne ho viste - pare il Manuel Fantoni di «Borotalco», quello mitico dell’«un bel giorno m’imbarcai su un cargo battente bandiera liberiana».

Reduce dopo reduce - in questa assemblea coordinata da Lucia Annunziata la quale chiede: «La generazione del ‘68 è stata agente di cambiamento o è stata agita?» - prima di Luciana Castellina prende il microfono Franco Russo, che fu leader a Roma e tra l’altro militò nel Centro anti-imperialista Che Guevara. Uno storico vero, parlando del ‘68 in maniera libera e liberale, direbbe che l’equiparazione dell’autorità all’autoritarismo ha finito col negare che un principio di autorità sia necessario in ogni ambito, anche in quello della scuola e dell’università. Russo invece fa l’elogio della «spinta anti-autoritaria» di quegli anni formidabili, e due coeve in platea - ormai paciose e imbiancate signore - si fanno prendere per un attimo da un brivido da rivoluzione permanente. E lo potrebbero condividere con Tony Negri, se fosse qui, ma è rimasto a casa sua, e se dopo aver celebrato proverbialmente il brivido di quando ti cali il passamontagna per lanciare le molotov e aggredire la polizia - «In quel momento senti sul viso il calore della comunità operaia» - non si fosse convertito, magari per gusto del paradosso e per vendere più copie della sua nuova autobiografia («Galera ed esilio»), al merkelismo: «La politica italiana è il nulla. Merkel fatti avanti e mi auguro che Bruxelles prenda le redini del nostro Paese». 

IL NOCCIOLO
Il dubbio che il ‘68 sia stato violento, e che abbia generato violenza ideologica nei due decenni successivi, non viene quasi a nessuno dei rioccupanti. O comunque non viene sciolto, perché considerato un piccolo particolare ed è invece il nocciolo della questione. Russo se la cava così: «La lotta armata col ‘68 non c’entra». Falso! E Piperno, il capo dei duri di Potere Operaio: «La nostra capacità di difenderci non era violenza, era partecipazione di massa». Ma almeno padre Zanotelli, sempre accompagnato dal suo drappo pacifista, di violenza parla. Peccato sia quella delle baby gang napoletane (e che c’azzecca?, come si dice in slang) e non quella dei katanga. Verso al fine tocca a Paolo Mieli, in veste di sessantottino e di storico, e smonta la baracca: «Rievocare lodandosi è un modo sbagliato. Rendere onore al ‘68 significa anche parlare delle cose sbagliate che ci furono e esercitare la virtù del dubbio che il ‘68 dovrebbe averci insegnato». 
S’è fatto tardi. I reduci si ritirano nelle loro case borghesi. E nei corridoi, a preparare esami e compulsare dispense, restano i ragazzi dell’università. Viene chiesto loro perché non hanno partecipato alla cerimonia del ‘68, e rispondono con un’altra domanda: «De che?». 
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