I conti in tasca al referendum: «Le tasse non potranno calare»

Le casse con il materiale elettorale per il Referendum
di Luca Cifoni
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Venerdì 20 Ottobre 2017, 00:00 - Ultimo aggiornamento: 22 Ottobre, 20:01

Nessun effetto diretto sulle tasse pagate dai cittadini lombardi e veneti, che comunque non potranno scendere. E seri rischi politici che dovrebbero preoccupare anche chi ha a cuore una equilibrata distribuzione delle competenze tra Stato centrale ed enti territoriali. Paolo Balduzzi insegna Scienza delle Finanze all’Università cattolica di Milano ed ha dedicato buona parte della sua attività di ricerca allo studio dei sistemi di federalismo fiscale. Il suo giudizio sulla consultazione referendaria di domenica è piuttosto severo.

I proponenti del referendum hanno messo al centro della loro campagna il concetto di residuo fiscale, sostenendo che Lombardia e Veneto danno molto di più di quello che ricevono. Trova convincenti queste argomentazioni?
«Il residuo fiscale è la differenza tra i soldi che i cittadini di un territorio mandano a Roma e quanto invece lo Stato spende in quel territorio. Si tratta di un concetto non facile da definire, perché bisogna tener conto, ad esempio, del fatto che lo Stato spenderà necessariamente di più nel Lazio per il fatto che a Roma ci sono le strutture centrali dello Stato, oppure nelle zone di confine dove si concentrano caserme e installazioni per la difesa. Quindi un calcolo accurato richiede di adottare una serie di correttivi, che però inevitabilmente avranno una componente discrezionale. Detto questo, è vero che Lombardia e Veneto hanno un residuo fiscale, ma i referendari hanno esagerato, scegliendo di usare la cifra più alta possibile. Per la sola Lombardia ad esempio hanno parlato di 57 miliardi. È probabile che in realtà sia più corretto collocarlo tra i 20 e i 30. E anche per il Veneto le cifre vanno un po’ ridimensionate. Ma quali che siano i numeri, il punto non è tanto questo.

Qual è invece secondo lei?
«Il punto è che il residuo fiscale non sarà comunque intaccato, anche se le due Regioni dovessero ottenere maggiori competenze. Per il semplice motivo che in quel caso lo Stato centrale cederebbe sì le competenze, ma ridurrebbe i trasferimenti in corrispondenza a alle risorse finanziarie che restano sul territorio. Da quel punto di vista non cambierebbe nulla e dunque è pura propaganda far credere agli elettori che ci sarà uno spazio di decine di miliardi per la riduzione delle tasse. Questo non può succedere».

Però la Regione con più competenze potrebbe gestirle in modo più efficiente di quanto fa lo Stato centrale e quindi risparmiare risorse da destinare ai contribuenti.
«Certo, ma è tutto da dimostrare che questo avvenga nella situazione concreta. E in ogni caso, se avvenisse, si potrebbero aprire spazi solo nel medio-lungo periodo».

Di che competenze stiamo parlando? Quali sono quelle che potrebbero passare a Lombardia e Veneto?
«Tutte quelle attualmente previste dall’articolo 117 della Costituzione come concorrenti tra Stato e Regioni, e in più altre che invece sono esclusive dello Stato ma che possono essere cedute. La più rilevante, che porta con sé una buona dote finanziaria, è l’istruzione. Ma il fatto è che tutta la procedura non è mai stata sperimentata, non c’è una legge applicativa e nemmeno una tempistica. E proprio questa situazione secondo me fa emergere il vero argomento politico contro il referendum».

L’argomento politico qual è?
«Con il referendum si dà un valore appunto politico ad una scelta che invece dovrebbe essere il risultato di una valutazione del governo e del Parlamento sull’opportunità di dare questa o quella competenza ad una Regione piuttosto che ad un’altra. Una valutazione da fare nel concreto con un criterio tecnico, oggettivo. Faccio notare che si tratterebbe comunque di un regime sperimentale, perché la Costituzione non dice che il trasferimento debba essere per sempre. Se passa il principio per cui con un voto popolare si ottengono le competenze, tutte le Regioni potranno chiederle tutte indipendentemente dalle singole situazioni, da quanto sono efficienti e così via. Al contrario, se il referendum in Lombardia e in Veneto dovesse rivelarsi un flop, allora vorrebbe dire che dovremmo aspettare 10-15 anni prima che si possa tornare a discutere sul tema dell’autonomia».

Contro le ragioni di un autonomismo spinto ci sono anche quelle del solidarismo, in uno Stato complesso come il nostro che comprende realtà molto diverse tra loro. Come si può trovare il punto di equilibrio?
«Io penso che su questo la Costituzione, come modificata nel 2001, permetta di trovare il punto di equilibrio. C’è la possibilità di dare più competenze alle Regioni, ma lo Stato dovrebbe prima garantire livelli uguali di servizio per tutti i cittadini. Questo finora è stato fatto solo in campo sanitario, con i Lea. Solo il governo centrale può garantire questa parità di trattamento tra i cittadini con i propri trasferimenti, perché le Regioni non hanno i mezzi per farlo».

Vuol dire che la leva fiscale è insufficiente?
«Sì, appunto perché i territori hanno situazioni molto diverse. C’è l’addizionale regionale all’Irpef, ma è chiaro che a parità di aliquota la Lombardia raccoglie di molto di più di altre Regioni. Quindi la possibilità di movimento è limitata. È a questo che servono i residui, ad assicurare gli stessi trattamenti in tutta Italia».

Che giudizio dà dell’attuale assetto tra le Regioni? E come potrebbe cambiare in prospettiva?
«Ha senso pensare di dare maggiori competenze ad alcune Regioni, una volta garantiti i livelli di servizio a tutti. Ma forse sarebbe anche ora di ripensare all’autonomia di quelle a Statuto speciale, e quindi di ridurre le risorse di cui attualmente dispongono. Mi rendo conto che è una cosa complicata, perché comunque questo tipo di modifiche richiede un iter costituzionale, per non parlare del fatto che in alcuni casi ci sono anche dei Trattati internazionali. Ma anche in questo caso sarebbe il caso di applicare un criterio tecnico e non politico».

 

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