Il procuratore Francesco Lo Voi: «Antimafia, ci sono stati abusi, ma li abbiamo anche fermati»

Francesco Lo Voi
di Lara Sirignano
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Martedì 24 Maggio 2016, 00:42 - Ultimo aggiornamento: 19:55

Imprenditori diventati simbolo di legalità indagati o processati, un giornalista noto per le sue battaglie contro i clan inquisito per estorsione e pure un giudice, che, per anni, ha sequestrato patrimoni mafiosi, finito sotto inchiesta per corruzione. Procuratore Lo Voi, nel giorno in cui ricordiamo chi, come Giovanni Falcone, la lotta a Cosa nostra l’ha pagata con la vita, possiamo definire questo l’annus horribilis dell’antimafia siciliana?
«Bisogna capire di quale antimafia parliamo, perché, se consideriamo il numero di arresti e sentenze di condanna ottenute tra il 2015 e il 2016 solo dalla Procura di Palermo, tutto è stato tranne che un anno orribile. Certamente l’azione della magistratura, parlo per il mio ufficio ma non solo, non ha risentito delle polemiche legate a singole vicende giudiziarie, alcune peraltro ancora in fase di indagine, né subito rallentamenti».

Sì, ma che siano venuti al pettine nodi e alla ribalta patologie gravi di una certa antimafia è innegabile.
«Sono stati scoperti casi in cui c’è stato uno sfruttamento a fini personali, di carriera o immagine del movimento antimafia. E in alcuni casi sono stati accertati reati».

Perché si è arrivati a certe degenerazioni? Come è stato possibile?
«Per un certo periodo c’è stata una sorta di autoattribuzione o di scambio reciproco di “patenti” e “distintivi” antimafia basati sulle cose dette e non su quelle realizzate. Anche grazie alle indagini, però, il meccanismo è stato svelato e certe strumentalizzazioni sono venute fuori, ma questo non vuol dire che l’antimafia è in crisi».

Non si corre il rischio di demonizzare tutto un movimento e i risultati di anni di battaglie?
«Il rischio c’è è va assolutamente scongiurato. Sono entrati in crisi, ripeto, alcuni soggetti e un certo modo di intendere l’antimafia finalizzato a ottenere tornaconti personali, ma l’azione dello Stato e delle sue articolazioni non è affatto in crisi».

In questo clima che potremmo definire di disincanto, c’è chi definisce cerimonie come quella di ieri per il 24esimo anniversario della strage di Capaci, ritualità stanche e retoriche. 
«Il 23 maggio del 1992 ha segnato uno dei momenti peggiori della nostra vita professionale e per alcuni personale. Oggi questo non è più soltanto il giorno della memoria ma quello in cui si raccoglie e si verifica il messaggio di speranza che da quella immensa tragedia è nato. E questo anche grazie ad associazioni come la Fondazione Falcone, che si sono fatte carico di trasmettere ai giovani principi e valori. Nulla di più lontano da rituali stanchi, dunque. Basta vedere le centinaia di studenti coinvolti e l’entusiasmo con cui i ragazzi partecipano».
 

La presidente della commissione Antimafia Rosy Bindi ha rivolto un accorato appello ai politici, in vista delle amministrative, perché vigilino sui candidati e “ripuliscano” le liste. Un richiamo forte alla politica perché faccia la sua parte scongiurando il rischio del voto mafioso.
«Credo che ci siano ampi settori della politica nazionale che possiedono anticorpi sufficienti per evitare il ripetersi delle disattenzioni e degli errori del passato».

Durante la cerimonia di commemorazione il ministro della Giustizia ha lanciato l’idea di una convocazione degli Stati generali dell’Antimafia e di un coinvolgimento non solo degli addetti ai lavori, ma anche degli intellettuali. 
«Qualunque contributo venga dalla società, dagli intellettuali, dalla scuola è certamente d’aiuto perché la mafia è un problema di tutti non solo di magistrati e forze dell’ordine».
 

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