La prima volta che lo ho incontrato si chiamava Cassius Clay: è stato a Roma, alle Olimpiadi del 1960. In quei Giochi la lotta per la supremazia è stata tra noi due, lui mediomassimi e io welter. La Coppa Val Barker, il trofeo che viene consegnato al pugile tecnicamente migliore, l’ho vinto io. Eravamo in Italia e, credo, se fossimo stati altrove probabilmente la valutazione sarebbe stata diversa. Il pugilato vive su regole che hanno nello stile il suo rigore. Il mio, di stile, era classico; lui, il Cassius Clay che Roma ha ammirato, era l’innovatore. La sua arte era immensa ed eccelsa. Si credeva fosse impossibile affrontare l’avversario a mani basse: solo lui lo sapeva fare. Ha mostrato, sul ring, cose che ad altri non erano consentite.
A Roma ci ha insegnato tanto anche se ancora non era il Muhammad Ali che avremmo ammirato dopo quando è diventato il grande che tutti abbiamo conosciuto. Grande per i suoi epici combattimenti e, soprattutto, per le sue straordinarie battaglie. Cosa devo dire, che lui, il mio amico Ali, è stato un divo, un ambasciatore, uno straordinario ballerino da cento chili sul ring dove si muoveva con l’agilità della piuma. Lo dico con grande convinzione: lui ha cambiato per sempre il pugilato.
Ci siamo rivisti per l’ultima volte nel 1999. A Roma, nella città eterna che lo ha mostrato al mondo in quella Olimpiade che ci ha fatto vivere giornate meravigliose. Sì, davvero meravigliose perché l’atmosfera del Villaggio olimpico era unica. Parlavamo tanto, io e Cassius Clay, e tanto lo abbiamo fatto anche in seguito. Ecco, quel giorno del 1999 eravamo a casa di Gianni Minà, suo grande amico. Non eravamo tanto distanti dal Villaggio del ‘60: possiamo dire che da Monte Mario lo vedevamo quasi e ne avvertivamo i profumo come fossimo ancora lì con i nostri vent’anni. Quel pomeriggio ci siamo divertiti, abbiamo chiacchierato, ci siamo raccontanti tante cose della nostra vita, del pugilato, della questione dei neri e della sua battaglia. Quanti ricordi con gli occhi velati, ricordi romani, ricordi di Foreman, di Don King, della sua medaglia d’oro del 1960 gettata in un fiume. Non stava bene, il fisico era logoro, il male non lo lasciava in pace.
Io, per fargli allegria, gli ha parlato della cerimonia di apertura di Atlanta che era, allora, recente, appena tre anni prima. Era rimasto contento di quella sera che lo ha mostrato al mondo. Mi ha ricordato, con un velo di tristezza, che aveva perso i suoi anni migliori per lo sport perché l’esercito lo aveva chiamato e lui non si è mosso. Non voleva andare in Vietnam. E via a parlare della sua religione, dell’essere musulmano che non porta armi e non fa la guerra. Una pensiero è scivolato, parlando ancora di Roma ‘60, su Wilma Rudolph, la gazzella nera amica di Livietto Berruti.
Ciao, caro e immenso Alì.
© RIPRODUZIONE RISERVATA