Manchester, nella moschea di Salman: «Lui era diverso da noi»

Manchester, nella moschea di Salman: «Lui era diverso da noi»
di Siavush Randjbar-Daemi
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Giovedì 25 Maggio 2017, 00:20 - Ultimo aggiornamento: 00:31
Il caldo sole primaverile che ha fatto da contorno inusuale a questi giorni della tragedia a Manchester risplende sulle volte dell’ex chiesa che, dagli anni Sessanta del secolo scorso, ospita la Didsbury Islamic Centre. La moschea di uno dei quartieri più abbienti di Manchester si trova alla fine della Barton Road, a poca distanza da caffè e ristoranti alla moda, pieni di clientela non intimorita dagli avvenimenti del centro città, distante una mezza dozzina di chilometri. L’umore è ben diverso all’ingresso della moschea, dove i fedeli entrano per la preghiera dell’Asr, o pomeriggio, alla chetichella, rilasciando brevi dichiarazioni con toni sommessi. Quella più ricorrente è: «Siamo Mancunian prima, e musulmani poi». Mancunian, cioè cittadini di Manchester. C’è poca voglia di soffermarsi sui dettagli delicati: il giudizio sul rispetto dell’Islam da parte di Salman viene rimesso ad Allah. È toccato a Fawzi Haffar, membro del consiglio d’amministrazione, esprimere la forte condanna della moschea per l’accaduto ed esortare tutti a riferire qualsiasi indizio alla polizia. «C’è molta solidarietà», spiega Abdul, un dentista di origini pakistane. La sua assistente cristiana era all’Arena in quei dannati momenti del lunedì sera. Il Didsbury Islamic Centre vuole quindi mostrare un’immagine di moderazione. Alle preghiere del venerdì, spiega uno dei tanti membri dello staff, non partecipano meno di 1500 persone. «Le porte sono aperte a tutti i credenti», viene ricordato, ma i sermoni non sono in arabo, bensì in inglese: troppi fedeli sono giovani cresciuti, come i fratelli Abedi, in Inghilterra, e quindi privi di una comprensione sufficiente della lingua del Corano. Alcune ombre si stagliano però sull’immagine di una comunità di fedeli benestanti ed impegnati nel volontariato bipartisan. Nel 2011 l’Imam della moschea, Abdullah Mustafa Graf si recò in Libia per combattere contro Gheddafi. Per molti esuli libici, l’occasione da cogliere al volo per contribuire alla caduta dell’odiato rais di Tripoli. Secondo Mahmoud, un volontario alla moschea e membro dell’Associazione Giovanile Libica, furono in centinaia a seguire l’esempio di Graf, e tra loro forse gli stessi Abedi. Il sogno si spezzò però nel 2012. L’inizio della guerra civile, l’avvento al potere dei fondamentalisti a Tripoli e altrove, e infine l’ingresso dell’Isis nel pantano libico convinsero Graf e molti altri a riprendere la vita britannica. Con alcune eccezioni.

ISMAEL
Mahmoud ci tiene a distinguere tra i fratelli Abedi. «Ismael era una persona normale, coinvolto nel volontariato», spiega Mahmoud.
Attualmente sotto torchio da parte della polizia, Ismael ha completato gli studi in informatica, era residente in città ed era frequentatore assiduo della moschea, dove gestiva i computer dell’ufficio e aiutava con i corsi sul Corano. Salman, le cui rare visite in moschea erano state notate da pochi, era invece taciturno e quasi mai presente. «Abbiamo sentito che faceva la spola con la Libia, ma a noi risulta che fosse di pianta stabile lì», continua Mahmoud, notando che l’attentatore dell’Arena fosse incline alla radicalizzazione. Il sospetto, ventilato a voce bassa, è che Salman avesse scelto la via del non ritorno in Libia, forse in collusione con i familiari di stanza nel Nord Africa. Tocca ora agli inquirenti confermare questa ricostruzione dei fatti. Per il momento, i fedeli che escono silenziosamente dalla Didsbury mosque alimentano la speranza che il tetro legame tra il loro luogo di culto e l’eccidio della Manchester Arena sia limitato a un singolo, anomalo visitatore.
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