Immortale Maigret da Gabin a Mr Bean: è Rowan Atkinson l’ultimo interprete del commissario

Immortale Maigret da Gabin a Mr Bean: è Rowan Atkinson l’ultimo interprete del commissario
di Micaela Urbano
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Domenica 11 Dicembre 2016, 00:01 - Ultimo aggiornamento: 14 Dicembre, 19:14
«Maigret non somiglia ai poliziotti delle caricature. Non ha i baffi, né scarpe con la doppia suola. Porta abiti in lana fine e di buon taglio. Inoltre si rade ogni mattina e ha mani curate. Ma la sua struttura è plebea. È enorme e di ossatura robusta, e i muscoli duri risaltano sotto la giacca». È il 1931 quando questo antieroe inventato da George Simenon appare per la prima volta nel romanzo Pietro il Lettone. E ora, dopo 75 anni di successi letterari, cinematografici e televisivi, Maigret torna in tv con due capitoli trasmessi dalla britannica Itv lo scorso marzo e presentati in anteprima oggi al Roma Fiction Fest. Prodotti dal figlio di George Simenon, John, che dirige in una vera e propria multinazionale dei diritti dell’opera del padre, sono interpretati da Rowan Atkinson, e con Lucy Cohu nel ruolo di Louise, la moglie del commissario.

Così Atkinson, il mingherlino, terribile e spesso orribile Mr, Bean è il massiccio ma distinto Maigret, che negli anni Cinquanta al cinema ebbe volto e anima del grande Jean Gabin. E che poi nella Rai dei grandi sceneggiati venne portato in vita da uno straordinario Gino Cervi, anni dopo da Bruno Cremer, e da Sergio Castellitto. Un sacrilegio, dunque. Al contrario. Perché Atkinson funziona. Nel primo dei due film, Maigret Sets a Trap (interpretato sia da Gaben sia da Castellitto), dopo poche sequenze il protagonista riesce a far dimenticare quell’omuncolo gretto, egoista, tirchio, ai limiti del raccapriccio che lo ha reso popolare, e si trasforma in un poliziotto credibile. Che non stona affatto mentre indaga sulla morte di cinque donne uccise una dopo l’altra, crimini che terrorizzano l’intera città. Un prodotto onesto, classico nello stile, questo Maigret ambientato nei ‘50, denso di atmosfere e luci cupe come i delitti. Al contrario dello stesso capitolo con Castellitto, film tv all’avanguardia e attraversato da colori alla Greenaway che sferzavano il video e colpivano lo stato emotivo dello spettatore.

Così, l’esile ma intenso Atkinson, forse più british che francese, diventa quel poliziotto che diventa una star fin dalla prima edizione dei romanzi (alla quale seguono 74 libri e 28 racconti). E il motivo semplice. È un personaggio di rottura. Diverso da tutti gli investigatori raffinati e infallibili, alla Sherlock Holmes, abituati a risolvere delitti patinati nella società bene. Simenon conduce Maigret nei quartieri poveri, o piccolo borghesi, mettendo l’accento sui motivi che spingono una persona a compiere un crimine, lasciando l’indizio materiale in secondo piano in dostoevskiana maniera. Diceva Simenon: «Non bisognerebbe mai togliere all’essere umano la sua dignità. L’umiliazione è il peggiore dei crimini». E infatti Maigret cerca di immedesimarsi, di comprendere la personalità di ladri e assassini, giungendo talvolta a giustificarli fino a salvarli dai loro destini.

E poi piace al pubblico, tanto, per la sua normalità. Quando non è alle prese con i delitti e i castighi, Maigret è un uomo come tanti, inseparabile dalla sua pipa. Amante del buon vino e della tavola, della bouillabaisse e della zuppa di cipolle, del pollo al vino e delle baguette gonfie di foie gras. Della vita tranquilla. 

LA STORIA
È dal ‘32 che questo commissario giunto a Parigi da Saint-Fiacre, (un immaginario villaggio dell’Allier), residente al 132 di Boulevard Richard Lenoir da quando ha preso in moglie Louise Léonard, trasloca sul grande schermo. In una serie cinematografica interpretata da Abel Tarride e Albert Prejean. Fino al trionfo di Jean Gabin, diretto da Jean Delannoy. Perfetto nel ruolo del commissario. Con quella faccia segnata dalle rughe e dalla pietas, accigliato a puntino sotto la falda del cappello. È talmente tanto coinvolto dal ruolo, Gabin, da voler scegliere lui stesso i costumi di scena. Si ispira a suo nonno, un uomo onesto e perbene che indossava sia la cintura sia le bretelle. Così bardato rese mitico quel Maigret protagonista di inchieste che poco c’entrano con lo schema del poliziesco classico, che disegnano ritratti psicologici, e vivono nelle atmosfere stagnanti della provincia francese come nella Parigi più alla moda.

Nel 1964 i casi del poliziotto diventano uno degli sceneggiati più amati dagli italiani, con Gino Cervi, Andreina Pagnani nel ruolo della signora Maigret, e con la regia di Mario Landi. Trentacinque episodi, prodotti per la Rai da Andrea Camilleri, divisi in quattro stagioni, l’ultima delle quali segnò l’ascolto epocale di 18 milioni e mezzo di spettatori. Piaceva Cervi, la sua aria da francese, ma anche italiano medio, che non vedeva l’ora di tornare a casa per indossare la vestaglia e mettersi a tavola a discorrere con la moglie. Piaceva la sua aria pacata, la lentezza con cui, tassello dopo tassello, ricostruiva il puzzle del giallo che doveva risolvere. E il disappunto che gli si leggeva sul volto quando scopriva che il colpevole era un povero diavolo.

Anche Bruno Cremer affronta il commissario. Cinquadue episodi girati tra il ‘91 e il 2005. Ma, nonostante la bravura di Cremer, la serie non ha il calore di quelle italiane. E nemmeno l’eleganza della nuova con Atkinson. 
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