RIGENERAZIONE
Perché come una barca in mezzo all’oceano il mondo è un sistema chiuso, in cui non ci si può appoggiare all’esterno per il rifornimento. «Ogni singola impresa libera che sia parte di questo pianeta deve guardarsi in faccia ed essere responsabile e attenta pur raggiungendo buoni risultati a fine giornata», ha spiegato la McCartney, aggiungendo che «il bello di questo rapporto è che dà delle soluzioni ad un settore estremamente dannoso per l’ambiente, con problemi di cui la gente non è neppure consapevole». A partire dall’abitudine di comprare vestiti che vengono indossati pochissimo, magari sette o dieci volte, prima di essere buttati via in una cultura dell’usa-e-getta in continuo aumento: rispetto a 15 anni fa, l’utilizzo medio dei vestiti è diminuito del 36% e in paesi in rapida espansione economica come la Cina addirittura del 70%. Inoltre dei 57 milioni di tonnellate di fibre prodotte ogni anno per l’abbigliamento, il 73% finisce nelle discariche o negli inceneritori e appena l’1% viene riciclato in nuovi vestiti. Il 12% diventa qualcos’altro, il che non è necessariamente un bene per l’ambiente, poiché non si fa altro che rinviare il momento in cui l’abito finirà in discarica, andando contro i principi di restauro e rigenerazione dell’economia circolare.
LA CONSAPEVOLEZZA
Mentre «ogni singolo istante l’equivalente di un camion della spazzatura di tessili viene buttato o bruciato», il problema è anche finanziario: «Ogni anno si stima vengano persi 500 miliardi di dollari in vestiti indossati appena o mai riciclati». E anche da un punto di vista di strategia industriale, la lotta agli sprechi nel settore dell’abbigliamento non è qualcosa che si possa rinviare, perché ormai i consumatori sono troppo informati e consapevoli per premiare marchi che portano avanti pratiche immorali, come dimostrato dalle conseguenze del crollo del Rana Plaza in Bangladesh nel 2013.
E infatti anche colossi della moda low-cost come H&M hanno dato il loro contributo allo studio “Una nuova economia del tessile: ridisegnare il futuro della moda”, che propone alcune soluzioni pratiche per evitare che si arrivi al 2050 con una situazione insostenibile a causa dell’aumento dei consumi di Africa e Asia: la prima è cercare di mettere a punto un super-tessuto che produca meno delle 700mila microfibre rilasciate in media da ogni lavaggio di sintetici e talmente piccole da sfuggire ad ogni filtro; la seconda, molto più ambiziosa, è fare uno sforzo collettivo per trasformare la maniera in cui i vestiti sono pensati, disegnati e venduti per tornare a dar loro una vita più lunga, che vada al di là delle mode del momento e che ne migliori la percezione di prodotto di qualità da far durare nel tempo.
IL NOLEGGIO
Ci vogliono inoltre nuovi modelli di business, come ad esempio quelli rivolti a migliorare la rivendita di vestiti usati - cosa che nel Regno Unito è già molto presente con i popolarissimi “charity shops” in cui si portano le cose dismesse che vengono poi rivendute per beneficienza - o magari addirittura l’affitto di vestiti per chi vuole cambiarsi spesso. Ma cosa succede quando un vestito arriva a fine corsa e non è più indossabile? Oltre al fatto che vengono persi cento miliardi di dollari all’anno di materiali - non solo la plastica, che è il 63%, ma anche il cotone ha un impatto ambientale pesantissimo, vista la quantità di acqua e di terreno che serve per coltivarlo - si rischia che tutto il faticoso processo di produzione vada sprecato. E poi i tessuti, come la carta, devono diventare facili da riciclare: inquinano come l’aviazione e il trasporto marittimo messi insieme, la loro vita non può finire con un cambio di moda o di stagione.
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