Liberi e moderni, la televisione degli anni ‘70 vista da Vezzoli

Liberi e moderni, la televisione degli anni ‘70 vista da Vezzoli
di Malcom Pagani
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Mercoledì 26 Aprile 2017, 00:08 - Ultimo aggiornamento: 29 Aprile, 15:26
Schegge di un quadro d’epoca: «Nella trasmissione Acquario, Maurizio Costanzo riceve Susanna Agnelli e le fa trovare come ospite a sorpresa Rino Gaetano. In studio parte un sottofondo musicale. È un frammento scelto di una canzone di Rino, Nuntereggaepiù, quella in cui in rapida successione, dopo l’Avvocato, si citano Umberto Agnelli e la stessa Susanna. Lei è marmorizzata, con lo stesso look che poi avrà per sempre, come solo i potenti possono permettersi di fare e Costanzo, geniale, la scuote con una domanda inusuale: “Signora Agnelli, se fosse Rino Gaetano cosa penserebbe di lei?”. A quel punto, rianimata, Susanna si lascia andare: “Se io fossi Gaetano, penserei di me proprio quello che pensa lui“. Siamo oltre Kant, e più in là di Schopenhauer, qui. Siamo nella Rai degli anni ‘70, un luogo di libertà creativa, coraggio e invenzione oggi inimmaginabile». Francesco Vezzoli è nato nel 1971. È l’unico artista nato entro i confini ad essere stato invitato a rappresentare l’Italia alla Biennale in tre distinte occasioni, in America è considerato una divinità (molto)laica e vende le sue opere- quadri, ricami o installazioni- a centinaia di migliaia di euro, pur non avendo alcun senso del denaro. “Tv 70: Francesco Vezzoli guarda la Rai”, la mostra commissionatagli da Prada che la ospiterà su seimila metri quadri negli spazi milanesi della Fondazione dal 9 maggio al 24 settembre, l’ha affrontata per pura passione: «Conoscendo la mia ossessione per quella tv, mi hanno proposto di metterla a frutto. “Eccomi” ho detto e quindi eccoci qui». 

Lei Acquario lo conosceva? 
«A memoria. I primo lampo visivo della mia vita è stato il Milleluci di Falqui. Una finestra sul mondo che mi è rimasta tatuata addosso. Quella tv era stupefacente. Costringeva i potenti a sedersi in poltrona e creava un cortocircuito in cui esisteva qualcuno che provava a metterli in discussione e a spiazzarli». 

Oggi non avviene più? 
«Non solo i veri detentori del potere non li freghi più e in tv, senza paracadute, non li convinci a stare neanche con la baionetta, ma quel che si è perso è la sola ipotesi di un confronto diretto tra cultura popolare e mondo del potere». 

Come mai? 
«Perché nei talk di oggi è scomparsa la dialettica a vantaggio del mercimonio. Sono diventati spazi promozionali, suk in cui si vendono prodotti, latifondi da arare con il concime del product placement, scambi consapevoli tra contraenti». 

Quando è accaduto? 
«Sia detto senza alcuna accezione polemica- perché non l’ho mai considerato il male, a cambiare le regole del gioco è stato Berlusconi. La sua tv fitta di consigli per gli acquisti, alla dialettica era meno interessata». 

A quale dialettica pensa? 
«A quella meravigliosa del Match di Arbasino ad esempio. Quando invita Moretti e Monicelli a discutere dell’importanza della figura di Sordi e i due litigano platealmente, a nessuno interessa smerciare un prodotto che non confini con l’intelligenza. Il tema non ha il cartellino del prezzo in sovraimpressione». 

La mostra riguarda solo i ‘70?
«Certo. Solo quel decennio. La Fondazione Prada è rigorosa, molto più rigorosa di me». 

Cosa vedremo a Milano? 
«Una selezione molto personale dei miei ricordi, delle mie sensazioni e delle mie emozioni. I grandi capolavori di Burri, Boetti o Vedova sovrapposti alle interviste realizzate con gli artisti stessi. Magari non è la parte più spettacolare della mostra, ma a me interessa perché è la prima volta che l’artista ,intriso nel suo pauperismo, si rapporta con l’esistenza dei media».

Che Rai era quella dei ‘70? 
«Una tv straordinaria, in grado di interloquire con i mondi più vari. Una tv costretta dal momento storico a raccontare una guerra civile e che contemporaneamente provava a tenere alto il morale degli italiani. Da una parte la cronaca, dall’altra l’entertainment, dall’altra ancora la produzione di Fellini, Godard e Bertolucci, il Signore e Signora con Delia Scala, Gabriella Ferri che in Dove Sta Zazà? canta sul GRA, Umberto Eco e Paolo Poli, Cicciolina e Amanda Lear in Strix. Un microcosmo tra più interessanti al mondo». 

Dove è l’interesse? 
«Nell’idea che ci fosse una struttura libera e polimorfa aperta ai gusti di tanti pubblici diversi». 

Un tv migliore di altre? 
«Molto migliore anche di quella americana o inglese. Nella prima, Barbra Streisand canta testi meno interessanti di quelli della Carrà con una voce- lo ammette lei stessa- infinitamente meno felice di quella di Mina. Nella seconda, diventata arrapante solo negli ‘80, si assiste al cupo scontro ideologico tra Ken Loach e Thatcher. Cose che ai Millennials di oggi, a differenza di un film di Scola, apparirebbero incomprensibili». 

Siamo stati fantasiosi? 
«Interdisciplinari e trasversali, colorati e coraggiosi, forse ambigui, come ci hanno sempre rimproverato all’estero rompendoci le palle fin quasi alla persecuzione. Se essere fantasiosi significa essere cialtroni, voglio iscrivermi di diritto alla cialtroneria. Nella prima intervista rilasciata al New York Magazine, Letterman lamentava che nessuno dei grandi network Usa avesse affidato un Late Show a una donna: se fossi potuto intervenire avrei detto: “La Rai, con Sotto il divano di Adriana Asti, l’aveva fatto già nei ‘70 e in modo più provocatorio di Jimmy Fallon”». 

La Rai fu dominata da Ettore Bernabei. Censore di Dario Fo o dirigente illuminato? 
«Per me Bernabei è come il Padreterno e la Madonna incoronata. Un dirigente di un livello celestiale. Ma io non faccio testo, per me Falqui vale un grande tragediografo e Enzo Trapani viaggia dalle parti di Petronius». 

Trapani si sparò. 
«C’era grande qualità nella sua tv. Non venne riconosciuta e arrivò il dolore. Guardavo a loro come eroi romantici. Quando le femministe dissero che in Milleluci emergeva la manipolazione del corpo della donna, mi dispiacque. Non sono mai riuscito a pensare che Falqui o Mina, o Carrà e Boncompagni avessero una storia d’amore mediata dalla reciproca convenienza. Il mio sogno romantico è che si amassero liberamente creando meraviglie in tv».

Perché non si è mai accostato a Mina? 
«Perché rispetto il gretagarbismo. Essere esposti allo sguardo del pubblico è un privilegio che può mutare in strazio. Però una cosa ai miei miti di allora la chiedo: Toglieteci la vostra immagine, ma non il sogno. Non vengano a dirci che quegli anni non sono stati gloriosi, che non erano innamorati o peggio che non si divertivano. Abbiamo bisogno di crederci. Per costruire il futuro, abbiamo necessità di pensare che un grande passato sia esistito». 

Lei leggeva molti giornali da bambino. 
«Continuo a leggerli. Per Il Messaggero, nel periodo della mia mostra, commenterò le foto del vostro giornale di 40 anni fa con una chiave contemporanea. Non per nostalgia, ma perché tra ieri e oggi, il ponte esiste. Va solo riportato alla luce». 
 
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