Addio a Laura Biagiotti, la figlia Lavinia: «Non ha mai smesso di essere una mamma»

Addio a Laura Biagiotti, la figlia Lavinia: «Non ha mai smesso di essere una mamma»
di Malcom Pagani
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Sabato 27 Maggio 2017, 00:05 - Ultimo aggiornamento: 29 Maggio, 09:26

Lavinia non ha bisogno di domande e forse cerca ancora le risposte. Lavinia non ha ancora trent’anni, ma parla con commozione non estranea al raziocinio. Lavinia non ha ancora idea di quanto possa ferire l’assenza, ma sa già cosa le manca: «Sentire la mia mano destra perdersi nella sua mano sinistra». Lavinia Biagiotti, unica figlia di Laura e di Gianni Cigna, senza più padre né madre da ieri, scriverà la propria storia e il proprio domani da sola: «Lei rifiutava il passato e guardava sempre al futuro. Diceva “quello che abbiamo fatto ieri, per quanto bello o gratificante sia stato, non conta più. Oggi abbiamo un nuovo foglio bianco sul quale scrivere qualcosa“. Ora che questo foglio da riempire si è trasformato all’improvviso in un’enciclopedia e sarò costretta a camminare in solitudine, in un mercatino fuori rotta, su una spiaggia o su una passerella, sono sicura che l’avrò sempre accanto a me, sorretta dalla fede che avevamo entrambe e dal suo esempio, in ogni cosa che farò. Mi sono sempre tirata su le maniche, sono consapevole che adesso dovrò rimboccarmele ancora di più. Ultimamente mi diceva: “Disegniamo insieme il futuro”. Non è più possibile, ma non ho paura. Lei mi ha insegnato fin da piccola a non provarla e a camminare a testa alta, in autonomia». 

Sua madre raccontava che confezionava sin da bambina i vestiti per le sue bambole. Come nacque la sua passione per il mestiere di Laura?
«Abbiamo sempre condiviso tutto, a iniziare dalla moda, fin dal primo giorno. Sono nata il 12 ottobre 1978. Nel giorno di una sfilata milanese. Prima di ieri, l’ unica a cui mia madre sia mai mancata. Mamma voleva che nascessi a Roma e a Roma, una città che ha amato disperatamente e per la quale ha fatto tanto, sono nata. Aveva studiato Archeologia cristiana, “Roma mi ispira ogni giorno e io voglio restituire qualcosa alla mia città” diceva. Coinvolse i suoi colleghi, gli amici, fu di parola».

Sua madre girava il mondo e lei? 
«Ho avuto la gioia e la fortuna di poterla sempre accompagnare. Sono figlia unica e lei desiderava vedermi crescere. Mia madre voleva essere un’imprenditrice, una donna capace di inventare e di creare, ma voleva essere sopratutto una mamma. Aveva deciso vivere e lavorare nello stesso posto, il luogo in cui mi trovo in questo momento, uno spazio in cui impiantò gli uffici in modo che tutti i pomeriggi potessi fare i compiti accanto a lei e godere delle piccole cose di valore non quantificabile per condividerle insieme. La forza delle minuscole cose del quotidiano, me l’ha insegnata lei». 

Cosa rammenta dei primi anni? 
«Sono stata sempre una bambina molto autonoma, perché capivo l’importanza del lavoro dei miei genitori ed ero felice di poterne fare parte a modo mio. Mi sentivo un po’ adulta e anche un po’ importante». 

Perché? 
«Perché i miei genitori hanno sempre chiesto il mio parere, il mio punto di vista che si trattasse di moda, di politica o di un servizio del telegiornale. Fin dai 9- 10 anni, mi ero persino vista affidare dei piccoli compiti: “Metti i numeri delle scarpe sulle scatole” mi dicevano. E che Nadège du Bospertus  portasse il 37 o Naomi Campbell calzasse il 40, me lo ricordo ancora». 

Cosa non ricorda invece? 
«Il giorno esatto, l’istante preciso in cui cominciai davvero a lavorare. Il nostro è stato sempre uno scambio. Loro giocavano con me e in qualche strano modo, io facevo parte del loro mondo. I creativi e mia madre inventavano al grande tavolo con i disegni e le matite e io li imitavo. La bottiglia del profumo “Roma” nacque così. Avevo dieci anni, loro dipingevano con mano felice e io li scimmiottavo cercando di replicarne i gesti. Alle sfilate mi portavo le barbie nello zaino. Nel backstage le tiravo fuori e mentre lei provava i vestiti alle sue vere belle, io facevo lo stesso con le mie bambole». 

Era un rapporto dialettico il vostro? 
«Persi mio padre molto presto, a 17 anni. D’un tratto vidi mia madre zoppa, senza più la gamba a cui era solita appoggiarsi per stare in piedi. Erano una coppia, una squadra e un binomio straordinario. Non significa che non discutessero, ma erano complici, complementari, indivisibili. Dopo il Liceo Classico avrei voluto diventare medico. La osservai nel suo dolore, smarrita e cambiai idea in un secondo». 

Quando abbandonò le velleità da medico cosa fece? 
«Ero una ragazzina che doveva affrontare la sua gavetta. Mia madre con me fu amorevole e al tempo stesso durissima. Per due anni feci solo fotocopie e fax andando a lavorare nei nostri negozi sparsi per il mondo. Con umiltà. Ho imparato tanto all’epoca». 

E il dolore di oggi che lezione le lascia? 
«Da un lato, la consolazione di saperli sorridere di nuovo insieme, i miei genitori, e dall’altro la sensazione del segno profondo lasciato da mia madre, umano prima ancora che professionale. Hanno intasato i centralini di casa nostra e dell’Ospedale Sant’Andrea. Persone comuni, donne e uomini. Mamma aveva una missione estetica ed etica. Le vestiva, le donne che vanno a faticare, le amava, avvertiva i problemi piccoli e grandi. Aveva inventato gli abiti senza taglia che potessero star bene a chiunque».

Chi era Laura Biagiotti? 
«Una persona che si svegliava sorridendo e diceva: “Oggi regaliamo un piccolo sogno”. Una donna del tutto aliena all’autocelebrazione che quando sentiva parlare di mostre sulla sua maison si voltava dall’altra parte. Una stilista che pensava sempre al progetto successivo. Una signora seria che amava il bianco e credeva nell’ottimismo, ma non era affatto credulona e sapeva cosa volesse dire concretezza». 

Cosa le lascia? 
«L’idea che le vecchie e le nuove generazioni possano convivere senza stupide e infruttuose guerre generazionali. Che gli “anta” valgano come gli “enta” e la carta d’identità sia secondaria. Che giovane in sè per sè è solo uno slogan. Rispettava l’opinione dei ragazzi e non disprezzava quella degli anziani, ma valutava con un senso di giustizia. Quando avevo 18 anni mi ascoltava e se la mia idea era migliore della sua, era pronta ad ammetterlo». 

È una cosa rara? 
«Rarissima. Correggere un figlio e non ascoltarlo crea frustrazione, educarlo e correggere il suo punto di vista perché lo si è ascoltato attentamente è tutta un’altra storia». 

Che storia è stata la vostra? 
«Una storia di libri scambiati, passeggiate, tramonti, gelati estivi, tenerezze e gite. “Facciamo una gita insieme?” proponeva. Oggi chi usa più la parola gita?» 
 
Il suo adesso sarà un lungo viaggio. 
«Non so ancora come coniugare i verbi. Se parlare al presente o al passato. Mamma amava le cose antiche, ma sapeva come essere moderna. Scriveva sulla carta e non ignorava la rivoluzione digitale. La sera in cui si è sentita male, ci eravamo scambiate tante foto su WhatsApp. Io ero a Londra, lei qui, da dove le parlo ora. Se ne è andata con serenità, ma io so che in un certo senso non se ne andrà mai». 
 

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