Lampedusa, la grande paura: ai profughi il test sul Califfato

Lampedusa, la grande paura: ai profughi il test sul Califfato
di Nino Cirillo
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Venerdì 20 Febbraio 2015, 00:06 - Ultimo aggiornamento: 00:16
dal nostro inviato

LAMPEDUSA A ogni disperato che varchi quel cancello - il cancello del centro di accoglienza - non chiedono più, come una volta, se nel suo lungo e atroce peregrinare abbia preso la scabbia, per dirne una. Gli mostrano piuttosto una bandiera dell’Isis perché vorrebbero sapere da lui se la riconosce, se l’ha vista, dove e quando. La riconoscono, soprattutto i siriani la riconoscono subito, ma negano puntualmente di averla vista sventolare nei lager che li hanno accolti prima di arrivare qui. E non è per sentito dire, lo rivela Flavio Di Giacomo, portavoce dell’Organizzazione internazionale per la migrazione: «Negano, negano sempre...».



​Ecco, questa adesso è Lampedusa. Un impasto di accoglienza - perché quella non è mai venuta meno - e di paura. Paura dei barconi kamikaze, paura degli infiltrati su quei barconi, degli scud di fabbricazione sovietica che stanno ancora lì, negli arsenali di Gheddafi, e che in teoria una plausibile gittata ce l’hanno. Sempre pronta a soccorrere, l’isola è oggi beffardamente costretta a doversi difendere.

E così non sai più se preoccuparti di quello che vedi o di quello che ancora non vedi, al di là del mare. Perché anche quello che vedi è drammatico quanto basta. Leonardo Sacco, vicepresidente delle Misericordie italiane, l’uomo che s’è ripreso in gestione il centro dopo gli anni scandalosi di Lampedusa accoglienza, ad esempio, non fa sconti a nessuno: «Manca poco al collasso». E chiarisce: «Se in una struttura per 381 persone ce ne stanno almeno il doppio, voi che ne pensate?». Si, ce ne stanno ancora il doppio. Nonostante i ponti aerei, nonostante le navi per Porto Empedocle, in via Imbriacola sono ospitati almeno in settecento. Hai voglia a dire, come dice Sacco, che «la scabbia non si tratta più con il benzolato» - chi non ricorda l’orrore dei quelle docce? - ma «con delle creme speciali». Hai voglia a ripetere, come ripete lui, che «certe situazioni non si verificheranno più».



La verità è che siamo ancora una volta al limite, sull’orlo di un altro abisso, al prezzo di 32,95 euro al giorno per ogni immigrato che arriva, per ogni pasto caldo e letto che gli si offrono.



I MINORI

Se c’è uno scandalo più scandalo degli altri, beh, è quello dei 143 minori - tanti ne sono stati contati - che hanno trovato un tetto in quel centro. «Non accompagnati», recitano pilatescamente i verbali di polizia. Per non dire che intere famiglie hanno voluto investire su di loro, tirando fuori quei tre, quattromila euro in modo da garantire un futuro a tutti, un giorno, da qualche parte dell’Europa.

Ma hanno anche dieci, undici anni, questi «minori non accompagnati», e li vedi vagare sorridenti per le strade dell’isola, a caccia di mandarini e pomodori perché tanto qualcuno glieli darà. Penalizzati più degli altri, a essere precisi, perché loro su un aereo da soli non ci possono salire, debbono aspettare una nave, perché le procedure sono più complicate, perché paradossalmente sono condannati a restare più degli altri. Su via Roma si fanno forte l’uno con l’altro. Vanno a caccia di schede telefoniche o, in subordine, di qualcuno che gli presti il telefonino o il computer, che li faccia planare gratis su un account facebook, per collegarsi con Milano, con la Germania, con la Svezia, dove un cugino, uno zio, sta aspettando notizie.



I RACCONTI

Hanno da ripetere lo stesso racconto, eppure ogni volta diverso. Come quello di Omar, che da Mogadiscio a qui ci ha impiegato tre mesi e mica si lamenta: «Sono proprio contento, ho trovato in Italia il cibo e la pace». Ma non è uno che dimentica: «No, non dimenticherò mai quello che ho visto in Libia. Tanti morti, ragazzi come me. E ho visto la guerra, ho visto migliaia di persone in attesa». Somalo lui, somali tanti come lui, ma anche siriani, eritrei e tanti, tantissimi senegalesi nelle camerate di quel centro di accoglienza che almeno è stato ripulito delle tracce del furioso incendio di qualche anno fa.



L’INTELLIGENCE

Ma noi, l’Italia? Stiamo giocando con la Storia, ci stiamo giocando la faccia. Anzi, almeno le facce di quei venti, trenta militari che ieri pomeriggio da Palermo si sono imbarcati per Lampedusa. In tuta mimetica dell’Esercito, o con le mostrine del Battaglione Sicilia dei Carabinieri. Reparti scelti, arrivati a Lampedusa a tenere sotto controllo una situazione che non è più banalmente di ordine pubblico. Altri ne arriveranno, molti altri nei prossimi giorni, secondo il piano di rinforzi che il Viminale ha preparato. E insieme a loro l’intelligence, perché questa spianata di terra in mezzo al mare è diventata un punto di osservazione fin troppo privilegiato per studiare le mosse del Califfo.



LA GUARDIA COSTIERA

Un capitolo a parte merita la nostra Guardia costiera, un fiore all’occhiello, come altro considerarlo? Ebbene, dopo le minacce di qualche giorno fa - in mare aperto, con gli scafisti che pretendono e ottengono la restituzione di un barcone - la Guardia costiera è come scomparsa dai radar. Consegna del silenzio assoluta. Tutti zitti, tutti a rimuginare sull’offesa recata. I cavalieri dell’accoglienza e del soccorso costretti a subire l’affronto dei mitra puntati: chi potrà mai riparare a quest’affronto?



I NUMERI

Il mare è grosso, mette anche quello paura. Di carrette all’orizzonte non se ne vedono. Eppure le previsioni sono terribili: sono arrivati in tremilaottocento solo nei cinque giorni a cavallo dell’ultimo fine settimane, ce ne sono trentasettemila, in terra libica, tutti potenzialmente in diritto di chiedere lo status di rifugiato, e fra duecento e cinquecentomila - dicono i servizi di mezzo mondo - potrebbero arrivare qui nei prossimi mesi. All’appello manca solo Frontex, l’agenzia europea che proprio qui a Lampedusa dovrebbe mostrare cosa è capace di fare. Ma la sede è a Varsavia, discretamente lontana dal Mediterraneo, e sull’isola non ha neanche un ufficio. Non bussate, non vi sarà aperto.

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