Troppo inglese, siamo burocrati: dilaga una neolingua italiana storpiata dai termini britannici

Troppo inglese, siamo burocrati: dilaga una neolingua italiana storpiata dai termini britannici
di Marina Valensise
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Martedì 28 Febbraio 2017, 00:31 - Ultimo aggiornamento: 3 Marzo, 17:05
«Vi informiamo che in data odierna, si è riunito il primo staff meeting, per valutare gli asset nazionali e le priorità attualmente in corso, da sharare con la nostre corporate division, al fine di implementare le guidelines previste dalla nuove policys 2017».

A parte le virgole messe a caso, gli errori di grammatica, policy al plurale dovrebbe diventare policies, e un orrido neologismo come sharare, dall’inglese “to share”, in italiano “condividere”, capiterà a tutti almeno una volta al giorno di imbattersi in questa spaventosa neolingua dell’upgrading, dettata cioè dal contemporaneo “vorrei ma non posso”, indice di pretenziosità neoaspirazionale che nemmeno un genio del pastiche come Carlo Emilio Gadda avrebbe saputo inventarsi. La battuta definitiva, a questo riguardo, spetta a uno storico della musica come Paolo Isotta, prìncipe degli idiosincratici: «Ogni qual volta, in Italia, una cosa viene chiamata in inglese, io vedo la mano del cretino».

L’IDEA
Per una volta, cerchiamo però di essere positivi e propositivi, non solo spiritosi. Per arginare la suddetta neolingua che ormai imperversa non solo grazie agli addetti alla comunicazione, ma ai responsabili di aziende importanti e persino nelle alte sfere dei ministeri, in attesa di un prontuario da mettere in circolazione come quelli per i redattori delle case editrici, potremmo avanzare la modesta proposta di multarne l’abuso nei testi scritti, siano essi emanazione di burocrati di stato, o il florilegio spontaneo dei responsabili della gestione aziendale.
Che ne dite? L’intervento in parte vessatorio nulla avrebbe di particolare: si tratterebbe di piccole ammende interne da comminare con discrezione e da versare in un salvadanaio comune, al fine di costituire un montepremi destinato agli impiegati più vigili, oltreché a utenti, clienti, fornitori e collaboratori solerti, i quali, consapevoli della fragilità dell’italiano e del suo inesausto splendore, si cimentassero nella salvaguardia dello stesso. A me sembra una bellissima idea, che unisce il gioco, la sfida, l’emulazione. Pensiamoci.

In fondo, sarebbe solo una delle possibili varianti di un principio già in uso a tutela dell’ambiente e del paesaggio, e già applicato alle industrie produttrici di materiali a rischio (Produci vernici tossiche e vuoi continuare inquinare? Davvero non puoi farne a meno? Allora paghi), ma anche agli esercizi commerciali nel campo ristorazione, noti per l’estrema discrezionalità nell’installazione di strutture mobili di recezione (Insisti per infilare quattro file di tavolini in quella viuzza del centro storico che il mondo ci invidia? Davvero non resisti a violare le norme? E allora paghi).

I VERIFICATORI
Sarà difficile, però, trovare gli agenti di controllo, i verificatori, direte voi. Non ne sarei così sicura. In Italia i ministeri, gli uffici pubblici, le stesse imprese abbondano di personale mortificato dalla promiscuità della lingua madre, dall’uso sconsiderato e dialettale di anglicismi inutili, che servo solo come bollino, anzi patacca, di distinzione per chi la distinzione non sa nemmeno dove sia di casa. C’è un numero inverosimile di martiri di questa neolingua tribale, pronti a sacrificarsi, a offrire testimonianza, correggendo, emendando, arginando l’ostentato abuso dalle mire egemoniche.

GLI SFORZI
Ogni giorno combattono la loro battaglia in silenzio, riscrivendo messaggi, prosciugandole la prolissità della sintassi, falcidiando zeugmi e anacoluti, per ricomporre frasi snelle, incisive, eleganti. Sarebbero dunque felicissimi di intervenire, a titolo volontario, nella nuova campagna in difesa della lingua di Dante, Petrarca, Ariosto e Tasso, per citare gli autori sublimi, come fa il nostro ambasciatore a Tel Aviv, Francesco Talò, da anni impegnato in prima linea sul delicato fronte, con tanti illustri suoi colleghi del ministero degli Esteri che finanzia nel mondo i programmi anno di ben 83 istituti di cultura, per promuovere la lingua e la cultura e la lingua italiana. Intendiamoci, nessuno vuole il ritorno all’autarchia o la difesa dell’idioletto come in epoca fascista.

Ma è bene chiarire, una volta per tutte, che in tempi di globalizzazione e di neonazionalismi in ebollizione, il cosmopolita vero e il vero uomo di mondo non è quello che infarcisce le sue frasi di assessement, target, dreamteam, role model, workshop, best practice e cultural engagement, abusando di supporti, perché ansioso di supportare, anziché “sostenere”, disseminando il discorso nell’intento di endorsare non si bene sa cosa, volendo dire “approvare”, e al solo scopo di implementare, perché è molto più fico che dire “realizzare”, o forse perché, ormai, con tutta questa confusione in testa è diventato incapace di realizzare alcunché. 

VERBI E GENERI
No, miei cari. Il vero cosmopolita è un altro. E’ l’italiano che parla un bell’italiano corretto, sicuro dei modi verbali, di preposizioni, accenti e generi (in grado di articolare il sostantivo femminile rémora, anziché inventarsi un non meglio identificato remore maschile, forse per la sola assonanza col femore), e dunque in grado di riscrivere in inglese tutto quello che ha già scritto e pensato in italiano. Dunque, non facciamoci illusioni. Serve ancora uno sforzo e dev’essere uno sforzo comune. Le lingue non ammettono scorciatoie.
 
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