Luca Guadagnino: «L’illusione di Roma una quiete magica»

Luca Guadagnino: «L’illusione di Roma una quiete magica»
di Luca Guadagnino
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Lunedì 24 Luglio 2017, 00:02 - Ultimo aggiornamento: 26 Luglio, 20:54
Tra i dodici anni e mezzo e i tredici, in soli sei mesi, crebbi in modo impressionante, rapido e vertiginoso. 30 centimetri che mi provocarono una cifosi e una lunga teoria inesausta di sale d’aspetto mediche e appuntamenti con professori di bianco vestiti dallo sguardo preoccupato. Con un tipico viaggio della speranza da Sud, raggiunsi Roma per un consulto con un ortopedico di chiara fama. L’impatto fu uno schianto visivo. Non tanto per i monumenti del centro storico, quanto per le prospettive architettoniche dell’Eur dove eravamo ospiti della famiglia Di Pasquale - Antonio, Giuliana, Stefano e Paola - carissimi amici di famiglia che vivevano in un quartiere che se da un lato offriva una visione parziale della città, dall’altro brillava per fascino, grandeur e mistero. 

IL REMAKE
È strano pensare, proprio mentre mi accingo a terminare le riprese del remake di Suspiria, come dal mistero di Dario Argento fossi stato attratto fin da allora. Tra busti di gesso, controlli periodici e tutori provvisori, da Palermo (dove i miei, arrivati dall’Etiopia a Frascati nel 1976, si erano trasferiti nel 1978) ormai venivo spesso a Roma e amando il cinema del maestro, costrinsi Paola Di Pasquale a compiere con me un viaggio iniziatico a bordo del suo motorino, un Boxer, alla ricerca di Argento. Avevo letto, forse su Sorrisi e Canzoni, che all’epoca Argento abitava in Viale Mazzini con Daria Nicolodi e con le figlie e intimai a Paola di accompagnarmi nel quartiere Prati per sublimare il sogno di incontrarlo. Per sei ore, setacciando tutti i citofoni di Viale Mazzini - i numeri pari e i dispari in democratica alternanza - cercai invano il cognome del mio mito. Non lo trovai e concluse infine le pratiche legate alla cifosi, tornai quietamente a Palermo a iniziare l’Università. Roma, la mitologia del cinema legata a Roma, soprattutto, non pulsava né a Palermo né dentro di me. Volevo fare il regista fin da bambino, certo, ma senza covare brame di trasferimento dalle parti di Cinecittà perché nei confronti di una certa cinematografia italiana avevo sempre nutrito un senso di sospetto. I miei modelli, oltre ad Argento, erano Bava, Rossellini e Bertolucci. Icone distanti dalla contemporaneità dell’epoca, astrazioni, miraggi. A scuotermi nel profondo e un po’ violentemente fu un’altra mia amica, un’amica che purtroppo oggi non c’è più, Daniela Polizzi: «Vuoi fare cinema e ti fai chiamare regista però poi non ti esponi e non ti metti in gioco. Qui a Palermo non ce la farai mai. Devi andare a Roma». Decisi di darle retta. 

L’UNIVERSITÀ
Mi ancorai alla facoltà di Lettere con indirizzo Spettacolo, un grande classico, decidendo con grande orgoglio coevo e retrospettivo, di non iscrivermi al Centro Sperimentale di cinematografia, che pure il mio principale collaboratore e fraterno amico Walter Fasano aveva frequentato, perché temevo che nel quadro della specifica formazione delle classi di regia, il Centro rappresentasse un luogo per tarpare le ali più per che farle aprire alla loro massima estensione. A Roma arrivai all’alba, un’alba fredda di ottobre e a bordo dell’auto di Paola di Pasquale risalii da Piazza dei Cinquecento fino al Torrino, il posto in cui con una studentessa americana avevo deciso di affittare una casetta. Da quel secondo approccio ricavai l’ingannevole sensazione di una quiete magica, perché ogni tanto Roma magica sa essere, che poi alla fine si sarebbe rivelata un’immagine illusoria. La prima casa del Torrino era un non luogo. Un posto in cui la gente, almeno all’epoca, si trovava nell’impossibilità di trovare una connessione per comunicare. Prendevo la metro B fino alla Biblioteca Nazionale, in un viaggio di formazione desolante che una volta giunto in facoltà si rivelava addirittura un po’ angosciante. È un’età difficile, quella della post-adolescenza, stretta tra le ripetizione pedissequa delle materie studiate e la ricerca personale di ciò che vuoi essere e diventare. Un anno dopo lasciai il Torrino e presi casa a Piazza Bologna. 

LAURA BETTI
In quei mesi feci un incontro fondamentale, quello con Laura Betti. La conobbi ai margini di una lezione del professore con cui poi mi laureai, Giovanni Spagnoletti. Con faccia tosta pari alla mia sconfinata presunzione ed arroganza, le proposi improvvisando un ruolo in una futura Signorina Else. Invece di imprecare contro me e Schnitzler, Laura accettò  e diventammo sodali. A differenza del mio amico Emanuele Trevi ero divertitissimo di sentirmi chiamare da Laura “zoccoletta”. Quello che per altri è stato motivo di sofferenza, per me ha rappresentato una grande lezione di vita. Ci vedevamo almeno tre volte alla settimana, cucinavo per lei, parlavamo, discutevamo di qualunque cosa. Mi insegnò a sospendere il giudizio e ad essere aperto nei confronti di chiunque. Ogni tanto mi portava in giro, dai suoi amici molto noti, i cardini dell’intellighenzia romana. Loro ignoravano volutamente questo 22enne dalle sembianze algerine che Laura si portava dietro e al tempo steso mi restituivano il privilegio di essere invisibile. Per loro ero soltanto una nuova “zoccoletta” di Laura e a me stava benissimo così. Io, protervo, pensavo di essere già quello che avrei voluto essere e con lei ascoltavo gli altri, li studiavo, imparavo molte cose sugli esseri umani in generale. Poi io e Laura facemmo un film insieme e lei, come le accadeva spesso dopo un lungo idillio, divenne molto violenta nei miei confronti. Forse per gelosia del mio rapporto con Tilda Swinton, forse per altri motivi imperscrutabili. Ci perdemmo e un anno e mezzo dopo lei morì. Non averla salutata è uno dei miei grandi rimpianti.
Continuavo a vivere a Roma, senza sentirmi parte in alcun modo del sistema del cinema italiano. Girai Melissa P., non un buon film in assoluto, ma un film interessante per quello che rappresentava come impalcatura economica e produttiva. Era tratto da un romanzo di grande successo e la Sony investì nel progetto senza colpo ferire. Per il mondo del cinema romano, Melissa P. aveva un’aura radioattiva e un po’ radioattiva, vista dal mio lato della barricata, iniziava a essere anche Roma. Nella sua pretesa indifferenza, un’indifferenza ipocrita che finge di lasciarsi scivolare addosso le cose, ma al tempo stesso è molto attenta alle dinamiche di relazione, Roma mi provocava una grande fatica interiore. Il suo doppio registro mi estenuava. Ne soffrivo senza riuscire a staccarmene per una sorta di dipendenza. Non facevo parte del cinema italiano, ma sentivo di non potermene allontanare. 

LA SPINTA DECISIVA
A darmi la spinta decisiva fu il successo all’estero di Io sono l’amore. Mi dissi: «Sai che c’è? Taglio le tende e vado via». E lo feci. Sette anni fa. Da allora vivo a Crema. Pur non abitando più a Roma, ogni tanto, per una forma di indolenza che mi contagia, sento la necessità di ritornarci. Mi sembra sempre la stessa e non credo affatto che sia sprofondata in un irreversibile degrado. Che io ricordi, Roma è sempre stata sprofondata nel degrado. Non c’è una discontinuità in negativo, ma al contrario un’assoluta continuità tra ieri e oggi. Se il dato lo si debba all’amministrazione, al carattere dei cittadini o alla conformazione della città, non so dirlo. Ma so una cosa: Roma è Roma. Una bagascia di grande intelligenza che sa essere cattiva.


 
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