La “fabbrica” delle cavie: i rischi dei test sull’uomo

La “fabbrica” delle cavie: i rischi dei test sull’uomo
di Carla Massi
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Giovedì 1 Febbraio 2018, 00:05 - Ultimo aggiornamento: 2 Febbraio, 16:46

Partiamo dal processo di Norimberga. Nell’agosto del ‘47 ventitré medici nazisti furono condannati dal tribunale militare americano perché avevano condotto degli esperimenti nei campi durante la seconda guerra mondiale. Utilizzando farmaci, sieri, vaccini, ormoni, veleni e gas. La sentenza nei confronti dei dottori e il Codice di Norimberga sono, di fatto, i primi atti che mettono limiti alla sperimentazione sull’uomo.

LE REVISIONI
“Figlia” di quel codice post bellico è la “Dichiarazione di Helsinki” della World Medical Association (1964): mai, fino ad allora, erano stati messi insieme principi clinici ed etici in grado di regolare la ricerca su pazienti o volontari sani. Sette le revisioni. Aggiornamenti, l’ultimo è del 2013, che rincorrono i lavori nei laboratori, nelle industrie, negli ospedali. Che, con velocità diverse, hanno raggiunto risultati che richiedevano i test sull’uomo. A questa “Dichiarazione” hanno l’obbligo di “ubbidire” i ricercatori di ogni parte del pianeta. Una legge inviolabile ovunque si intenda fare una sperimentazione sul corpo umano.

«Uno dei primi articoli - spiega Sandra Petraglia, dirigente Area Pre-autorizzazione dell’Aifa, Agenzia italiana del farmaco - stigmatizza che è dovere dei medici coinvolti nella ricerca biomedica tutelare la vita, la salute, la dignità, l’integrità e la sicurezza delle persone coinvolte. Quindi una tutela completa dal punto di vista medico ed etico. Ogni ricerca che un ente vuole avviare, infatti, oltre a seguire un protocollo nel quale si “disegnano” il criterio e l’obiettivo, deve passare al vaglio del comitato etico dello stesso ente. Solo dopo questo via libera è possibile procedere».
Oltre alla legge uguale per tutti, per poter avviare lo studio, è necessaria anche la supervisione di un gruppo di esperti valutatori del rigore etico dell’impresa. Oggi, in Italia, ogni centro, ente o ospedale ha il suo comitato. Presto, con ogni probabilità nel 2019, ce ne sarà uno solo centralizzato.

Regola base: né i volontari sani né i pazienti che partecipano agli studi devono percepire denaro. Solo adesione volontaria. Fogli su fogli devono essere firmati. Dall’assicurazione al consenso informato. Per i sani è previsto un rimborso spese trasporti e una copertura economica per l’eventuale mancato guadagno del giorno in cui c’è una visita, un controllo o un incontro con i medici. «È chiaro che quando viene deciso di avviare una ricerca - aggiunge Petraglia - il documento base deve ubbidire ad un lungo elenco di indicazioni. Fondamentali quelle che riguardano la tutela del paziente, sia in buona salute che gravemente malato». Stiamo parlando di procedimenti di ricerca validati scientificamente, di studi clinici, dunque. Che nulla hanno a che fare con alcuni test, anche brevi, che le aziende possono commissionare. E che, senza sorveglianza, possono voltare le spalle alle regole.

Torniamo ai laboratori che procedono secondo la “Dichiarazione di Helsinki”. Che hanno superato il supercontrollo dell’Istituto superiore di sanità e avuto il via libera dell’Aifa. Mettiamo che un gruppo di ricercatori abbia scoperto una nuova molecola e, sviluppando quella, intenda arrivare a un farmaco. In vitro, su cellule, e poi sugli animali le prime verifiche. Si indaga sulla tossicità e si analizza, per esempio, il rapporto tra il rischio e il beneficio. Conclusa la fase cosiddetta preclinica, si arriva ai test sull’uomo. Tre le fasi. 

LE TERAPIE
«Ipotizziamo si tratti di una molecola destinata a curare il cancro - dice Patrizia Popoli direttore del Centro nazionale ricerca e valutazione pre-clinica e clinica dell’Istituto superiore di sanità - In questo caso non vengono arruolati volontari sani ma pazienti, poche decine, che non rispondono più alle terapie a disposizione». Prima piccole dosi poi, mano a mano, si sale. Vengono controllate la tossicità e l’attività del farmaco. «Nella seconda - aggiunge - si continua a monitorare l’efficacia e la sicurezza confrontando con un altro trattamento. Nella terza fase, i ricercatori sono sempre concentrati sull’efficacia clinica, la sopravvivenza e altri parametri. A questo punto lo studio si allarga a migliaia di pazienti». In molti casi, dalla seconda fase in poi, né i medici né il campione sanno se viene somministrato il farmaco o il placebo. Il controllo con visite ed esami permette di verificare, comunque, lo stato di salute. Ed eventualmente escludere chi sta male dalla sperimentazione.

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