L’evoluzione del perfetto gagà: un saggio ripercorre storie e personaggi fino agli odierni metrosexual

L’evoluzione del perfetto gagà: un saggio ripercorre storie e personaggi fino agli odierni metrosexual
di Giuseppe Scaraffia
4 Minuti di Lettura
Sabato 2 Aprile 2016, 00:56 - Ultimo aggiornamento: 3 Aprile, 20:54
«Cosa m'importa se il mondo / mi rese glacial / se di ogni cosa nel fondo / non trovo che il mal / quando il mio primo amore / mi sconvolse la vita / senza lusinghe pel mondo / ramingo io vo / e me ne rido beffando il destino / così», cantava Gino Franzi, nello “Scettico blues”, con il viso imbiancato dalla cipria reso ancora più pallido dal contrasto col nero del cilindro. Il suo frac era la divisa del gagà. Non per niente Ettore Petrolini cantava, appoggiandosi al bastone dal pomo dorato: «Io sono nato col frac. Anzi, quando sono nato mia madre mica mi ha messo le fasce, macché! Un fracchettino. Camminavo per casa sembravo una cornacchia». 

Affezionatissimo al frac, Totò ha spesso interpretato questo pretenzioso personaggio. Indimenticabile la prova di Anna Magnani impegnata, al suo fianco, nel correlativo femminile, la gagarella. In seguito il cilindro è diventato una bombetta sulla testa di Montesano nel “Conte Tacchia” o su quella di Sordi in “Fumo di Londra”. Ma il gagà è sempre lo stesso.

LA MODA
Oggi un nuovo libro brillante e ben documentato di Massimiliano Mocchia di Coggiola - “Il gagà. Saggio sull’abuso dell’eleganza”, Edizione Giubilei, 13 ero – traccia la lunga storia di quello che potremmo definire, spiega Mocchia, il cugino di campagna del dandy. «Il gagà è visto con sospetto, come una bestia rara che non si sa bene per che verso prendere: la cosa migliore è sempre e comunque quella di fargli il verso». E in effetti la sua eleganza approssimativa e vistosa, la sua passività nei confronti della moda e il suo ingenuo narcisismo sembrano fatti per la penna dei caricaturisti.
 
A partire dal primo Novecento, il gagà viene portato dal palcoscenico da una serie di comici.
Il gagà recita innanzitutto di fronte a se stesso. «Sei davvero un bell'Adone! Gastone, Gastone…», gogola Petrolini. Convinto che basti un abito elegante, spesso solo ai suoi occhi, per trasformarlo in un dandy, si pavoneggia e tiene la realtà a distanza con le mani guantate di bianco o di giallo. Il gagà era una figura talmente diffusa che Walt Disney ne creò più di uno, dal frivolo topo Mortimer al papero vanesio Gastone.
Ma già prima Scott Fitzgerald l’aveva immortalato in uno dei suoi più celebri personaggi, “Il grande Gatsby”, un parvenu capace di ostentare uno smagliante completo rosa. Memorabile la scena in cui Gatsby sciorina ingenuamente davanti all’amata la sua collezione di camicie di dubbio gusto: «Camicie a righe, a disegni e a scacchi color corallo e verde mela e lavanda e arancione chiaro, con i monogrammi». Il gagà è convinto che lo stile sia una questione di quantità più che di qualità e Rodolfo Valentino impomatato e inguainato in improbabili tenute aveva esaltato questo modello, seducendo folle di ammiratrici.

LA LETTERATURA
Nelle parodie il gagà era svenevole e ottuso, ma anche geni come Simenon avevano da giovani adottato il suo modello. Il futuro padre di Maigret prediligeva abiti vistosi color rosa antico con pantaloni troppo larghi su scarpe gialle. Durante il proibizionismo i gagà più vistosi furono i gangster con i loro doppipetti pesantemente rigati, le camicie di seta scura e le cravatte fantasia. In Francia, durante la seconda guerra mondiale, quando la repubblica di Vichy predicava la raccolta dei capelli dai parrucchieri per confezionare pantofole per i combattenti, gli “Zazous” li portavano ostentatamente lunghi con uno sfacciato codino. Irritati da tanta indifferenza, i fascisti tendevano loro agguati per rasare loro le teste. Cocteau gli aveva soprannominati gli impossibili, irridendo le giacche che scendevano a mezza coscia e i pantaloni che si accorciavano pericolosamente, rivelando le scarpe a tripla suola. Negli anni 50, Fred Buscaglione celebrava quel mito popolare: «Con le ghette e il bastoncino/Senti i grandi coi piccini canticchiar / Giacomino il gran gagà! / Ha la giacca a quadrettini / I pantaloni un po’ strettini /E nelle tasche non ha il becco di un quattrin, no no!»

Annidato nei gironi più imprevedibili della società, il gagà oggi si definisce metrosexual. «Sono visto ergo esisto», potrebbe essere il motto di una categoria che unisce personaggi disparati da grandi artisti come David Bowie a divi del calcio come David Beckham o imprenditori come Flavio Briatore. Mentre il dandy è talmente innaturale da sembrare spontaneo, il metrosexual disdegna le mezze misure. Da Beckham a Lapo Elkann, il suo aspetto è di un’artificialità trionfante. Su di loro i pantaloni ricadono con una precisone inquietante, le cravatte sembrano finte, i cachemire si vergognano della loro morbidezza. Per queste statue viventi, auto, barche e case sono solo piedestallo. E le bellissime accompagnatrici sono, con ogni evidenza, solo un’accessorio in più, una prova del suo gusto sicuro. 
 
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