Edoardo Albinati: «Cortesia e civismo: è questa la chiave per far ripartire Roma»

Edoardo Albinati: «Cortesia e civismo: è questa la chiave per far ripartire Roma»
di Mario Ajello
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Domenica 29 Maggio 2016, 00:37 - Ultimo aggiornamento: 30 Maggio, 17:56
È l’autore del monumentale romanzo «La scuola cattolica» (Rizzoli), candidato al Premio Strega. Insegna ai detenuti del carcere di Rebibbia. Ha per Roma una venerazione non acritica. Si tratta di Edoardo Albinati.

Da anni, Albinati, noi romani non facciamo altro che lagnarci di questa città. Come uscire, ora che si è arrivati alle elezioni, dalla retorica della lagna? 
«Bisogna dire che il lamentarsi è la forma più diffusa di comunicazione. E’ un modo di riconoscimento reciproco nel quale ci diciamo: abbiamo gli stessi problemi. Ora però la lagna è diventata un’atteggiamento sterile. Perché l’ironica lamentazione classica dei romani si sta trasformando poco alla volta in un atteggiamento esasperato e aggressivo. Io credo che questa catena vada spezzata».

E come si fa? 
«Molto poco i romani si sono sempre aspettati dalle amministrazioni e molto poco le amministrazioni si sono sentite in dovere di dare. Così si è arrivati a una reciproca sfiducia, completa. Questa situazione va superata. Unilateralmente, senza aspettarsi miracoli dalle amministrazioni a venire, basterebbe cominciare a fare delle cose dal basso».

I cittadini con la ramazza in mano come nella trovata, più spettacolare che altro, di Alessandro Gassman?
«Quella è stata una lodevole iniziativa. Ma è l’Ama che deve pulire le strade. Sarebbe molto più semplice non sporcare. La questione è: non tanto fare cose particolarmente virtuose, ma evitare di fare le zozzerie. Se i prati dei parchi pubblici non fossero pieni di bottigliette o di bicchieri e posate di plastica, non ci sarebbe bisogno di qualcuno che pulisca. Tutti dicono, quando vedono queste cose: ah, il Comune non passa mai a pulire! Mentre a me viene da pensare: ma perché abbiamo sporcato?».

Se dovesse rifare un giro sulla circolare, a cui ha dedicato il libro intitolato «19», che Roma vedrebbe? 
«Temo che vedrei poco fuori dai finestrini, perché sarebbero o sporchi di polvere o coperti di graffiti, come spesso accade».

E se con la mano lei pulisse il vetro? 
«Penso che i quartieri popolari siano rimasti più simili a se stessi. Il degrado più visibile è nei cosiddetti quartieri borghesi. Io da ragazzino vivevo al quartiere Trieste, poi mi sono allontanato e ci sono tornato adesso. E trovo che sia un delirio».

Secondo il regista Paolo Genovese, invece, il degrado vero è nel centro storico e nell’estrema periferia. 
«Non sono d’accordo. Lo inviterei a calpestare i marciapiedi crepati di via Parenzo, davanti alla Luiss. Ad aggirare i cassonetti per la carta e per la plastica mai svuotati. E soprattutto a dribblare gli innumerevoli escrementi disseminati da cani incolpevoli e da padroni egotisti». 

Se la prende con la solita signora borghesuccia e menefreghista, come nel suo libro? 
«La stessa signora può rapidamente diventare una paladina della propria strada e del proprio quartiere. Bisogna ribellarsi contro se stessi, prima che contro le autorità».

E come si fa questa cosa? 
«Contro chi insiste in comportamenti asociali, bisognerebbe cominciare a usare il proprio esempio. Noi tutti ci comportiamo in default. Cioè facciamo quello che fanno gli altri. Il primo che lascia la macchina in seconda fila incoraggia gli altri a lasciarla pure loro. Ora bisogna che noi ci si prenda, come individui, la possibilità di uscire da questa spirale».

Dunque questa Roma non è irredimibile? 
«Roma è la capitale del cristianesimo. E Cristo dice che nessuno è perduto per sempre». 

Ma Roma è anche una città laica. 
«Le rispondo con un esempio tratto da “Guerra e pace”. Quando, durante la ritirata dei russi sconfitti, un soldato maltratta una donna, il principe Balkonskij lo punisce, giustamente. Perché anche nei momenti di emergenza, gli individui restano responsabili di quello che fanno. Quindi, anche nell’attuale sfacelo romano, ciascuno di noi è sempre tenuto a non lasciarsi andare e a usare cortesia e gentilezza. Cioè le due cose di cui oggi sento maggiormente la mancanza nella mia città». 
 

Lei insegna nel penitenziario di Rebibbia. Che Roma c’è lì dentro?
«Nelle carceri mi capita di trovare, tra chi vi abita, più solidarietà e savoir vivre di quanto ne abbiano quelli che vivono fuori». 

Qual è la Roma che sogna? 
«Voglio fare un solo esempio. Bologna, Piazza Grande, estate scorsa, il film “2001, odissea nello spazio” proiettato sul più grande schermo d’Europa, per diecimila persone incantate. Perché questo non può accadere nella mia città? Perché non possono vederlo, in quel modo meraviglioso, i miei figli?».

Il finale di quel film non è un po’ delirante e sconsigliabile per la nostra città? 
«Non è un delirio, è un sogno bellissimo. E ce lo meritiamo anche noi romani». 
 
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