Dalla Russia agli Stati Uniti è allarme rosso sul petrolio

Dalla Russia agli Stati Uniti è allarme rosso sul petrolio
di Flavio Pompetti
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Giovedì 14 Gennaio 2016, 10:00 - Ultimo aggiornamento: 15 Gennaio, 08:59
NEW YORK Emergenza rossa, anzi nera per il petrolio: mentre il brent è sceso ieri sotto i 30 dollari per la prima volta da 2004 e il Dow è precipitato a Wall Street di oltre 300 punti, produttori grandi e piccoli rischiano di dover gettare la spugna ed uscire dal mercato. Il rischio tocca le grandi corporation internazionali e gli imprenditori che hanno investito di recente sulle nuove tecnologie, ma coinvolge allo stesso tempo bilanci di interi stati ed equilibri globali.

ULTIMO SEGNALE
L’ultimo segnale di allarme è apparso sulla prima pagina del Wall Street Journal di due giorni fa, nella forma di un rapporto della Wolfe Research pubblicato dal quotidiano finanziario newyorkese, nel quale si legge che il perdurare nel tempo di un barile a 30 dollari manderebbe in bancarotta un terzo dei produttori americani. Gli Usa hanno ridotto in misura minima la produzione (9,4 milioni di barili al giorno al momento) rispetto al picco del secondo semestre del 2014, ma non hanno potuto però evitare la sovrapproduzione, perché l'inverno particolarmente mite sta deprimendo i consumi di energia, e affossa la domanda interna.

Questa contingenza ha bloccato il rapido ciclo di credito e di investimenti che alimentava la crescita tumultuosa delle aziende minori, e sta lasciando sul mercato i protagonisti di maggior peso. Negli ultimi mesi trenta aziende appesantite da 13 miliardi di debiti hanno portato i libri in tribunale, e 90.000 posti di lavoro sono stati persi nel settore.

Nel frattempo la produzione globale nel 2015 è cresciuta di un milione e mezzo di barili secondo le valutazioni della agenzia governativa Usa EIA, ed è destinata a lievitare di altri 700.000 per il prossimo anno prima di far registrare il primo calo nel terzo trimestre del 2017. «Attenzione - dice però l'analista della Morgan Stanley Adam Longson - l’eccesso di offerta può aver portato il barile a quota 60 dollari, ma da qui ai 30 attuali la responsabilità è tutta del super dollaro, e dell’aumento di spesa che comporta per le valute deboli negli acquisti di petrolio».

L’ECONOMIA CINESE
Sono infatti il rallentamento dell'economia cinese e una probabile nuova svalutazione dello yuan a suggerire le ipotesi catastrofiche degli ultimi giorni, con la londinese Standard Chartered che si è spinta a prevedere un barile a 10 dollari entro la fine dell'inverno. Comunque vada sul fronte valutario, la situazione attuale è già abbastanza precaria da preoccupare molti tra i paesi produttori. Ieri il premier russo Dmitri Medvedev ha riconosciuto che se il prezzo del petrolio cala ancora il paese dovrà prepararsi al peggio, visto che la profittabilità del petrolio russo, come dice il ministro per lo sviluppo economico Aleksey Ulyukaye, è ancorata a quota 82 dollari per barile. Il Venezuela con una soglia di break even a 111 dollari sta ancora peggio, e il governo Maduro sta amministrando un’economia che corre al ritmo del 270% di inflazione.

Il maggior produttore africano, la Nigeria, ha già fatto un appello all'interno dell'Opec per una revisione dell'attuale politica della produzione senza alcun tetto. La stessa Arabia Saudita che è al timone di questa corsa suicida, sta tirando la cinghia con tagli di bilancio e di sussidi per portare in fondo il boicottaggio contro il ritorno dell'Iran sulla piazza, dopo la sospensione delle sanzioni. Un barile a 20 dollari potrebbe vanificare il riavvio di pozzi farraginosi e obsoleti come quelli iraniani, che al momento accumulerebbero profitti solo oltre i 70 dollari. 

Ci sarebbe perlomeno da augurarsi che il crollo dei prezzi possa rilanciare la crescita nei Paesi consumatori, come è già successo altre due volte nella storia con il boom del dopoguerra e con il rilancio poderoso degli anni '80. E invece questa volta tra la crisi strisciante che frena ancora l'Europa e la caduta della domanda globale che fa seguito al rallentamento cinese, il risparmio dei costi energetici riesce a mala pena a foraggiare bilanci finanziari che altrimenti mostrerebbero una precarietà ben più grave, e sta forzando una deflazione poco salutare nei maggiori mercati.
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