Cocco Bill fa 60 senza il suo inventore esiliato

Cocco Bill fa 60 senza il suo inventore esiliato
di Malcom Pagani
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Martedì 4 Aprile 2017, 00:31 - Ultimo aggiornamento: 12 Aprile, 20:11
Fascista. La minoranza rumorosa lo aveva bollato così nei tetri anni 70 e Benito Jacovitti che dal Ventennio aveva avuto in dote una sola eredità, il nome proprio, aveva provato a riderne in assoluta solitudine: «Eia, eia, Baccalà». La stagione dell’ironia era passata da un pezzo, quella dell’autoironia era percossa quotidianamente dal fideismo cieco della militanza e il figlio molisano di un ferroviere poi riscopertosi proiezionista, si era trovato improvvisamente ai titoli di coda e su un binario morto. Quand’era ragazzo e nelle redazioni fumose, le maratone di bravura sul terreno dell’umorismo vedevano tra i podisti Marchesi, Zavattini e Flaiano, sembrava che limiti e orizzonte creativo si spostassero ogni giorno un metro più in là. E Jacovitti, disegnatore di genio formatosi a Il Vittorioso, aveva piantato la propria bandiera sulla frontiera già evocata da John Ford. Cocco Bill, il suo personaggio più famoso, dava vita a risse memorabili nei saloon del selvaggio West e nonostante bevesse camomilla, a restar tranquillo o a provare pietà per i nemici proprio non riusciva. Nato tra il tramonto di marzo e l’inizio di aprile del 1957, Cocco Bill avrebbe oggi sessant’anni. 

JAC NON ABITA PIÙ QUI 
Sarebbe bello discuterne con Jacovitti (scomparso a poche ore di distanza da sua moglie, come neanche in un film di Haneke, nel 1997) e farsi raccontare direttamente dal suo padre putativo, genesi e sviluppo dell’intuizione di Enrico Mattei. Distraendosi infatti per un istante dal petrolio e dall’ambizione di restituire all’Italia un ruolo al tavolo dei grandi, Mattei si era chinato sui “piccoli”. Sui bambini. Aveva pensato a un inserto a colori da pubblicare su Il Giorno- Il Giorno dei ragazzi- albo adatto a un pubblico dalla fantasia larga e i pantaloni corti e di affidarne il timone e la realizzazione a un navigatore che alieno ai bozzetti e alle sceneggiature liberava l’estro mettendo sul foglio, con la sicurezza degli eletti, il disegno che i lettori avrebbero visto poi rifinito e stampato. Della convergenza tra il marchigiano di nascita Mattei e il marchigiano d’adozione Jacovitti, si sa poco. Più nota, ma soffocata dal conformismo, dalla vigliaccheria e dall’egemonia intellettuale, la parabola calante di Jacovitti passato per meriti oggettivi e splendore immaginifico dal Corrierone all’oblìo in pochi, decisivi anni. Anni di piombo, anche tra le scrivanie dei giornali. Anni in cui le ironie di Jacovitti sul Movimento Studentesco non erano piaciute a capi, capetti e capibastone. Che non volesse uniformarsi alla vulgata unica, Jacovitti l’aveva messo in chiaro fin dall’esordio sul Corriere dei Piccoli. 

MOVIMENTO E STUDENTI 
C’è una maestra che insegue una mandria di piccoli lazzaroni con un lazo. I “Quattro piccoli contestatori” fuggono e Cocco Bill li irride: «Se la contestano a gambe» e ancora: «Quattro piccoli studenti in Movimento, un bel movimento studentesco». Dopo il Lucio Battisti in volo su “un bosco di braccia tese” e quindi immediatamente ascrivibile alla destra estrema (nonostante in Via Gradoli, nel covo delle Br, Polizia e Carabinieri avessero trovato l’intera discografia del cantautore di Poggio Bustone) ce n’era abbastanza per individuare un altro nemico immaginario, ma non supino e del tutto indisposto a chiedere perdono. Uno che con il suo sigaro in bocca e le bretelle per tenere i pantaloni, non avrebbe mai indossato il vestito che gli altri, tutti gli altri, avevano scelto per lui. Non solo Jacovitti non si vergognava di fare campagna elettoral-fumettistica per la Democrazia Cristiana, ma ai suoi eroi faceva aggiungere: «Altro che dieci partiti in lizza, qui ce ne sono solo due: la libertà e la dittatura». Quella del sedicente proletariato lo mise ai margini e all’epoca dell’eskimo in redazione, la ‘fatwa’ trovò esecutori zelanti pronti a ubbidire al diktat. Per Jacovitti l’aria si fece salata e gli spazi iniziarono a restringersi fino al successivo esilio. Cocco Bill non sparava a salve, ma gli altri avevano l’arsenale. Nella solitudine: «La gente mi piace molto, ma una persona alla volta» Jacovitti si smarrì. «Mi sento come un clown, solo in mezzo alla pista, con tanta gente intorno. Ma lontana» diceva e nell’autoritratto: «Sono un buffone con il pennino» l’amarezza prevaleva sull’analisi impietosa. In principio Jac provò a reagire. Emigrò su Linus, ritornò al Corriere per un breve periodo e poi venne ingaggiato da Adelina Tattilo e lavorò su un Kamasutra a fumetti: «Perché l’Italia stava diventando una sorta di Svezia senza educazione sessuale: un’orgia di guardoni al cinema e in edicola». Nel crepuscolo, Jacovitti alternò malinconia a sollievo per la ritrovata libertà. Esondando sulle riviste “hard” di un’era prepornografica, in un Paese dominato ancora dai pretori sessuofobi, dai film tagliati dalla censura o bruciati in piazza alla stregua dei volumi del Fahrenheit di Bradbury- almeno non incontrò chi in malafede si chiedeva cosa e come votasse nell’urna un artista apolitico di Termoli. 
 
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