Cannes, è sempre più cinema d’attore

Cannes, è sempre più cinema d’attore
di Fabio Ferzetti
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Martedì 12 Maggio 2015, 22:07 - Ultimo aggiornamento: 13 Maggio, 00:14
dal nostro inviato

Fabio Ferzetti



CANNES - Ma insomma, quale film conquisterà i fratelli Coen tra i 19 messi in concorso da Thierry Frémaux? Alla vigilia dell’inaugurazione la domanda è a dir poco prematura. Ma è inutile girargli intorno: qualsiasi appassionato pagherebbe oro per spiare in diretta le reazioni dei due geniali cineasti, e magari assistere alle discussioni prima del verdetto finale. Tanto più che per la prima volta nella storia il presidente della giuria, figura sempre determinante, è uno strano animale a due teste. E non è affatto detto che Joel Coen la pensi come Ethan Coen, insinuano sornioni i due fratelli, al contrario!



A giudicare dalle statistiche, i film americani sono comunque favoriti in partenza. Secondo una puntigliosa indagine del mensile Première, i presidenti di giuria un occhio di riguardo per i film del loro paese ce l’hanno eccome, anche se meno spesso di quanto si creda. Frugando nella storia del Festival, emerge che solo nel 18% dei casi la palma d’oro è andata a un film prodotto nel paese del presidente (i Coen, ad esempio, furono incoronati per Barton Fink da Roman Polanski, che con gli Usa ha un rapporto non proprio facilissimo). Con i presidenti americani, la percentuale sfiora però il 30%. Cari Coen, attenti a quello che fate, il mondo vi guarda!

Ma intanto, aspettando di scoprire se i film di Gus Van Sant (Sea of Trees, Todd Haynes (Carol) o Denis Villeneuve (Sicario) meritano davvero un premio, si registra una tendenza a dir poco impetuosa. Mai come quest’anno infatti a Cannes abbondano i grandi cast internazionali, e c’è già chi grida al tramonto della politica degli autori in nome di quella degli attori.



I TITOLI

Non pensiamo solo al Racconto dei racconti di Matteo Garrone e a Youth di Paolo Sorrentino, ma a The Lobsterdel tagliente Yorgos Lanthimos, greco, 42 anni, fino a ieri talento squisitamente “da festival”, con Colin Farrell, Rachel Weisz, Ben Whishaw e Léa Seydoux immersi in un’allucinata distopia che vede trasformati in animali i single incapaci di trovare l’anima gemella. Pensiamo a Louder Than Bombs del norvegese Joachim Trier, coproduzione franco-danese-norvegese girata in inglese a New York con Gabriel Byrne, Jesse Eisenberg e Isabelle Huppert. O al messicano Michel Franco, 36 anni, il regista più giovane in concorso, che ha cambiato l’ambientazione e il sesso del protagonista del suo Cronic per poter avere Tim Roth nei panni del paramedico addetto ai malati terminali... E l’elenco potrebbe continuare (9 film sui 19 in gara parlano inglese: non era mai accaduto).



Naturalmente non si tratta di evocare lo spettro del protezionismo, ogni film è un caso a sé, ogni regista ha le sue ragioni per scegliere di girare in un’altra lingua, produttori e venditori sono i primi a sottolineare che un film in inglese vede impennarsi budget e vendite all’estero. Ma quello che visto dall’Italia sembrava un problema solo nazionale, si rivela essere una tendenza mondiale su cui è inevitabile interrogarsi. Magari per sottolineare che, almeno a Cannes, solo il cinema asiatico sembra esente da questi rischi.



Che il cinema, un certo cinema almeno, sia destinato a seguire la strada del pop, massicciamente cantato in inglese quasi ovunque nel mondo? Non sarebbe un gran guadagno. Anche se qualcuno gira in America per tutt’altre ragioni. Come il documentarista Roberto Minervini, marchigiano per nascita ma internazionale per vita e carriera. Che dopo il toccante
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