Il Campidoglio ostaggio della sfida sulla legalità

Il Campidoglio ostaggio della sfida sulla legalità
di Simone Canettieri
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Venerdì 21 Luglio 2017, 00:00
Come se niente fosse. Dopo quasi mille giorni - con due sindaci e un commissario prefettizio passati in Campidoglio - e una sentenza fumante sul tavolo, la zuffa, e quindi la speculazione lessicale e politica, continua. Il Pd con Roberto Giachetti si limita a spiegare: «Basta parlare di mafia, bisogna ripristinare l’onore di Roma». Il M5S, che sopra a questa magica parolina ha costruito se non un impero di sicuro un Palazzo Senatorio, cita «le inchieste di Rosy Bindi sulle mafie del Lazio» e con il capogruppo grillino Paolo Ferrara accusa Giachetti «di appoggiare le tesi degli avvocati della difesa di Buzzi e Carminati». Che sul 416 bis sono quelle dei giudici. Dettagli? Può essere. Ma la dicono lunga su come la «mafia», parola dall’etimo incerto come capì subito Sciascia, abbia condizionato nel bene e nel male la vita della Capitale. Diventando così un alibi. Un grande ombrello. Un vestito da indossare in tutte le stagioni. Un’onda. Che ha schizzato Gianni Alemanno (poi uscito indenne da questa accusa), in grado di limitare comunque l’azione di Ignazio Marino per farsi poi surfare alle elezioni da Virginia Raggi. Oplà.

L’INIZIO 
Eppure nessuno, quel lontano 29 novembre 2014, si sarebbe potuto mai immaginare tra i velluti rossi del teatro Quirino che le parole del procuratore Giuseppe Pignatone, ospite degli stati generali del Pd, fossero così foriere di novità per Roma e la politica (ma anche per il cinema, la letteratura). Il magistrato parlò del rapporto tra corrotti e mafiosi, di nuove forme criminalità che stavano prendendo piede. «Boh, con chi ce l’avrà?», si diedero di spalla i presenti. Bastava aspettare tre giorni. 

Il 2 dicembre, la prima retata, l’ostensione al Paese del neologismo “Mafia Capitale”. Inchiesta bipartisan, in grado di terremotare di qua e di là: la vecchia giunta di destra e quella di sinistra di Marino. «Questa volta il rimpasto lo ha fatto la procura», fu l’analisi spicciola alla buvette del Campidoglio. Il sindaco, con un assessore subito indagato e dimissionario (Daniele Ozzimo sarà poi arrestato a giugno) più vari consiglieri nei guai, prese la situazione a modo suo: «Vado avanti, ma do fastidio a certi ambienti collusi». E anche il qui il non detto e la presenza della parola mafia sulla scena del Comune fece il resto: si ragionò di una scorta per il chirurgo dem, con il divieto di lasciare l’amata bici nel garage. Troppo pericoloso. Con un tempismo non proprio garantista: a 24 ore dagli arresti ci fu la conferenza stampa un po’ situazionista del M5S con le arance piazzate sul tavolo in mezzo ai microfoni, un simpatico cadeau da far arrivare a Rebibbia. Non solo avanspettacolo, ma anche gesti forti: annusando l’odore del colpaccio partì sempre dai grillini la richiesta di sciogliere - per mafia - il Comune di Roma. «Io ci andrei con i piedi di piombo», disse subito l’allora ministro degli Interni Angelino Alfano. Alla fine l’unico a essere sottoposto alle maniere forti sarà il X municipio, quello di Ostia, dove a ottobre si voterà dopo oltre 18 mesi di commissariamento. Ma ormai un certo clima si era già instaurato: ecco Luigi Di Maio e Roberta Lombardi in Campidoglio a urlare «onestà-onestà» e «fuori la mafia dallo Stato». Ecco, il premier-segretario del Pd Matteo Renzi che liquida il partito romano e lo affida a Matteo Orfini: «Marino è il nostro argine contro la mafia e non si tocca, anzi sarà ancora il candidato del Pd nel 2018 e governerà fino al 2013». Nell’ansia di dare risposte all’opinione pubblica, che vede coppole e lupare un po’ sopra a tutti i sette colli, il sindaco nomina Alfonso Sabella, il magistrato «acchiappa mafiosi» assessore alla Legalità. Il problema si dirà, con una certa sicurezza, è la macchina capitolina che è infiltrata se non corrotta. 

Anche se proprio il 31 dicembre 2014, a meno di un mese dallo scandalo, accadrà una storia parallela ma rivelatrice: 770 vigili urbani non si presentano a lavorare tra malattie improvvise, donazioni del sangue e permessi ex legge 104. Tutti a casa e non certo per vedersi a La Piovra o il Padrino. E’ uno sciopero bianco, finito praticamente senza colpevoli. Ma l’attenzione ormai è spostata altrove, sempre sull’inchiesta del Mondo di mezzo e sui possibili sviluppi che arrivano, puntuali, nell’estate del 2015. 

Ancora una retata, questa volta più politica: gli indagati della prima volta, adesso finiscono in manette. Marino non molla, Orfini lo blinda. Il M5S recita i verbali dell’inchiesta in piazza. Sarà un’estate pazza tra il funerale show dei Casamonica, la decisione del Governo di salvare il Comune dallo scioglimento (sacrificando Ostia) piazzando di fatto un altro sindaco, il prefetto Franco Gabrielli. Diventano mitiche le vacanze esotiche di Marino, accusato di essere sempre altrove. Il marziano finisce in mezzo alla vicenda dei rimborsi per le cene (da cui poi è stato assolto), alla battuta di Papa Francesco sul viaggio americano («Non l’ho invitato io, è chiaro?») e che alla fine sarà scaricato dal Pd, con l’orgia delle dimissioni di massa. Matteo Renzi dirà che per governare non serve solo l’onestà ma anche la capacità. Di fatto il problema non è la mafia, ma una macchina amministrativa che non funziona. Ne sanno qualcosa il prefetto Gabrielli e il commissario Francesco Tronca arrivato in Campidoglio come reggente: semplicemente perché non funziona nulla (o poco) di niente. Dalla raccolta dei rifiuti ai trasporti. Il messaggio però è passato: tutti collusi gridano dal M5S a destra e sinistra, che intanto provano a organizzarsi. Sembra una passeggiata per i grillini. «Anzi, è tutto un complotto per farci vincere», dice seria la senatrice Paola Taverna.

I PARTITI 
In uno scenario così, tra inchieste e intercettazioni imparate a memoria, il M5S cala Virginia Raggi come candidata. E sarà una cavalcata trionfante all’insegna del «cambiamo tutto», del «fuori i ladri, dentro i cittadini», sarà una «rivoluzione gentile». I partiti comunque ci provano: il centrodestra si spacca in due (Marchini e Meloni), il Pd butta in mezzo un tallonatore come Giachetti. La legalità è centrale: si promettono giunte sceriffe, tutti tirano per la giacchetta l’Anac. Intanto, al primo turno, quasi un romano su due non va a votare perché «tanto la strada sotto casa è sporca». Vincerà «Virginia» a mani basse e conoscerà subito le asprezze delle inchieste giudiziarie. «Piccoli errori, ma noi abbiamo ereditato - ripete da un anno la grillina - una città in macerie». Ieri sono successe due cose: i giudici hanno detto che non si può chiamarla mafia e il solito sciopero del mini-sindacato ha bloccato metro e bus mezza giornata. Ora sarà finito l’alibi?

 
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