Bruxelles, il giorno dopo: «Conviviamo con il terrore»

Bruxelles, il giorno dopo: «Conviviamo con il terrore»
di Renato Pezzini
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Giovedì 24 Marzo 2016, 00:01
Christian Delhasse nel giorno dopo le stragi si è presentato al lavoro. E nessun collega, nessun superiore voleva crederci. Christian, alle 9.11 di martedì mattina, guidava il treno della linea 5 della metro fatto saltare in aria da Khalid Bakraoui alla fermata di Maelbeek. Ha dato una mano ai feriti, ha aiutato i soccorritori a portare in superficie i 17 cadaveri, ha contribuito a calmare i sopravvissuti. Ha pianto tutte le lacrime che poteva piangere. E adesso, ventiquattr’ore dopo, eccolo di buon mattino al deposito: «Ho bisogno di lavorare». 

BISOGNO DI LAVORARE<QA0> L’intera città ha bisogno di lavorare. Andare avanti per non soccombere. Ricominciare per non smettere definitivamente. I negozi rialzano le saracinesche, gli uffici riprendono a macinare pratiche, bar e ristoranti tornano a esporre i loro menù del giorno. Scuole riaperte, stazioni ferroviarie operative. Tutto come se fosse un giorno normale. Ma non è un giorno normale e, anzi, questo encomiabile ritorno alla vita nasconde in qualche modo un segno di resa: come se la convivenza col terrore fosse ormai ineluttabile. 

 

DUE LINEE METRO IN FUNZIONE Perfino due linee della metropolitana sono in servizio: presidiate da militari in tuta mimetica e con i mitra in bella vista, frequentate da pochi coraggiosi. Fra la Gare du Midi e la Gare du Nord invece delle solite cinque fermate i treni sotterranei ne fanno appena due. Viaggiano a passo lento, nei vagoni c’è un silenzio timoroso, i posti a sedere sono per lo più vuoti, si scrutano i volti degli altri passeggeri, chi ha uno zainetto in spalla viene osservato con un filo di apprensione. No, non c’è proprio nulla di normale. A novembre, dopo le stragi di Parigi, una sorta di coprifuoco imposto dal governo e dalla municipalità aveva paralizzato Bruxelles per quattro giorni. E le stazioni della metro sbarrate erano il simbolo più evidente della vita che si era fermata. Adesso lo stesso governo e la stessa municipalità hanno insistito per rimettere in funzione le linee sotterranee da subito, malgrado le 17 persone che nella stazione di Maelbeek hanno perso la vita e la comprensibile psicosi di chi su quei convogli non ci vuole salire più, almeno fino quando il ricordo della strage non si sarà stemperato.

NIENTE PARALISI Quattro mesi fa la paralisi era stata scelta come arma di difesa. Adesso si coltiva l’illusione che i barbari si possono sconfiggere solo se si è capaci di non farsi immobilizzare, di non avere paura. Eppure proprio questa ostentazione di coraggio è in qualche modo un’ammissione di impotenza. E’ come dire che dal terrore non ci si può difendere, non ci sono contromosse efficaci, bisogna solo sperare che non accada più, o che accada altrove, contando sul potere lenitivo del tempo che cancella anche i peggiori presentimenti e i ricordi più insopportabili. Anche perché una cosa sono le «buone intenzioni» delle istituzioni, un’altra cosa sono le «reali intenzioni» della popolazione. Infatti la metropolitana è pressoché vuota, i negozi deserti, sei studenti su dieci non sono a scuola, i menù del giorno sulle vetrine dei ristoranti non richiamano quasi nessuno.

E l’idea di accettare con ardimento e con senso di sfida di camminare fianco a fianco con qualcuno che indossa un giubbotto esplosivo è solo una bella teoria.
Davanti al palazzo neoclassico della Borsa, nel centro di Bruxelles, c’è una concentrazione smisurata di postazioni televisive. Da mattino a sera diffondono le immagini di anziani che accendono lumini, di donne che depositano fiori, di ragazzi che sull’asfalto scrivono coi gessetti le loro parole: amore, pace, cose così. Qualcuno ogni tanto prende la parola: «Dobbiamo essere uniti», e l’applauso è garantito. Ma poi basta un qualche urlo che arriva da dietro l’angolo, o una corsa improvvida di un agente in divisa, per scatenare il panico e convincere molti che è venuta l’ora di tornare a casa. Ma senza prendere la metropolitana. Non si sa mai.
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