Effetto Banksy sui muri di Kabul, l’artista Mokamel torna nel suo Paese per riempire di colore la città ferita dalla guerra

Effetto Banksy sui muri di Kabul, l’artista Mokamel torna nel suo Paese per riempire di colore la città ferita dalla guerra
di Azzurra Meringolo
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Lunedì 27 Giugno 2016, 00:04 - Ultimo aggiornamento: 1 Luglio, 21:55
Due enormi occhi con il kajal. Anche se siamo a Kabul, non c’è nessun burqa a coprirli. E poi tanti cuori rossi, come quello su una carriola trascinata da un muratore che si appresta a scaricarlo ai piedi della mappa di un Afghanistan rosso come il sangue. Per curarlo, c’è stato messo un cerotto sopra: serve per sanare le ferite di un Paese che è stanco del dolore, della violenza e di soccombere.
Sono queste alcune delle opere disegnate all’aria aperta dal gruppo capitanato da Kabir Mokamel, artista afghano che ha tutte le carte in regola per essere considerato il Banksy locale. Dopo aver vissuto anni in Australia, Kabir è infatti tornato nella sua terra con uno scopo solo: usare la street art per riempire di colore la sua città che ancora porta i segni della guerra civile.

Le tele del suo museo all’aria aperta sono le pareti. E in una Kabul che, almeno ufficialmente, si è lasciata alle spalle una lunga guerra, di muri ce ne sono in abbondanza. Negli anni sono diventati tantissimi, sempre più alti, più larghi, più imponenti. Si sono trasformati in cinte murarie che rinchiudono Kabul nella paura e nell’isolamento, separando i ricchi dagli altri. Basta chiedere ai cittadini che cosa pensino di quei chilometri di mura che hanno ridisegnato i percorsi della loro città. Sono molti quanti rispondono che non sono lì per difendere i cittadini che stanno fuori, ma quelli che stanno dentro.

IL MESSAGGIO
«Nel tempo, le mura di Kabul sono diventate addirittura il simbolo del pericolo che circonda ogni persona che ci vive», spiega Kabir. «E così, con alcuni compagni ho avuto un’idea: se i muri non si possono abbattere, forse si possono fare sparire ricoprendoli di colori, di messaggi e di disegni, dicendo a quanti ci si imbattono quotidianamente che c’è un futuro per chiunque riesca a vedere oltre a un grigio blocco di cemento». Con questa idea in testa, è partita la sua missione: trasformare questi muri di paura e divisione in ponti simbolici e rassicuranti, usando la città come una tavolozza di colori che si anima di artisti. A dipingere ci sono anche tante donne che, sfidando le regole patriarcali, vogliono fare sentire la loro voce. E poi tanti passanti che per la prima volta accettano di tenere in mano un pennello.

PERSONE COMUNI
«Il primo graffito l’ho dipinto nel 2015. Era uno sguardo di occhi color arancione, accompagnato dallo slogan: “Vi vedo”, allusione alla corruzione che incancrenisce il mio Paese. Avevo preso l’ispirazione facendo la spesa in un supermercato, dove vicino agli scaffali erano esposti degli occhi per lottare contro i furti», spiega Kabir. Oltre a lui, molti sono gli artisti che prendono l’ispirazione da scene di vita quotidiana, trasformando i cittadini normali in eroi. «Per anni, le vere star qui sono stati gli uomini che imbracciavano fucili o spade, sognando la guerra. Ora stiamo cercando di mutare questa narrativa. I nostri eroi sono le persone normali, i lavoratori per strada, il vecchio in bicicletta, i bambini che vanno a scuola, tutti quelli che ogni giorno rischiano la pelle quando mettono i piedi fuori di casa. In molti casi queste persone si trasformano anche in artisti. E anche quanti non si cimentano in questa arte apprezzano il nostro lavoro. Lo sentono vicino a loro e ci ringraziano per quello che facciamo. Non solo per il colore che diamo alla città, ma anche per i messaggi che cerchiamo di diffondere», aggiunge Kabir che non ha avuto dubbi sul come battezzare la sua crew. «Siamo i signori dell’arte, gli unici che possono sconfiggere i signori della guerra che per anni hanno messo in ginocchio la nostra società».
 
LA CORRUZIONE
E quando parla di guerra, Kabir non si pensa solo alla battaglia sul campo, ma anche a quella culturale che si combatte con la forza delle idee. Gli occhi che lui per primo ha disegnato sono divenuti una costante a corredo di tante altre opere. Ci sono quelli della Gioconda, come quelli di Gandhi. Celano sguardi diversi, ma sono corredati tutti da una sola scritta sia in pashtun che in dari: «Ti sto guardando, la corruzione non può essere nascosta né gli occhi di Dio né a quelli degli uomini». E gli occhi sono solo uno dei tanti simboli di cui si serve questo genere artistico. Ci sono anche il grilletto di un fucile d’assalto dipinto a forma di arcobaleno, un palloncino in mano a una bimba a forma di cuore e lacrimogeni dai quali escono baci. Immagini che ricordano il Banksy originale, l’artista misterioso di cui non si conosce neanche il nome, ma le cui opere sono ora esposte in una mostra al Museo di Palazzo Cipolla di Roma.
«Non ho mai pensato di poter essere il corrispettivo afghano di questo grande artista. Non lo conosco personalmente, ma apprezzo il suo lavoro e lo vorrei invitare a venire a Kabul. L’invito è esteso a tutti gli artisti del mondo, anche gli italiani. Vorrei che Kabul diventasse la capitale mondiale dei graffiti. Per decenni questa città è stata simbolo di tristezza, sottomissione, violenza e sangue. Se riuscissimo a trasformarla nel luogo dal quale partono messaggi positivi sarebbe un grande successo. Non tanto per noi artisti, ma per la popolazione che inizierebbe ad essere più ottimista. È una grossa sfida, ma l’arte è in grado di riuscire dove la politica fallisce».
 
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