L’arte di essere Londra: apre la nuova ala della Modern, la Switch House

L’arte di essere Londra: apre la nuova ala della Modern, la Switch House
di Giulia Ottaviano
4 Minuti di Lettura
Giovedì 16 Giugno 2016, 00:17
Dalla cattedrale di St. Paul si imbocca il Millennium Bridge, bianco come una lisca di pesce, per attraversare il Tamigi. All’orizzonte una nave di mattoni rossi: la Tate Modern, con la sua ciminiera a mo’ di albero maestro e la Switch House, la struttura pseudo-piramidale da 260 milioni di sterline che sarà inaugurata domani, ma che pure sembra esistere da sempre sul dorso della vecchia centrale elettrica - oggi galleria di arte moderna e contemporanea da più di 5 milioni di visitatori l’anno. Una scritta: “Art changes we change”, è affissa sui mattoni rossi che caratterizzano la Tate Modern (vecchia e nuova, progettata dagli svizzeri Herzog & de Meuron), e che fortemente la distinguono dai grattacieli in vetro e metallo tutt’intorno.

IL CANONE A pochi giorni dal referendum per il Brexit, l’inaugurazione della nuova Tate Modern sembra proprio parlare a nome di chi ama il carattere internazionale di Londra, e di chi ama il creato tutto. Frances Morris, la nuova direttrice, dichiara che alla luce del nuovo mondo globalizzato è oggi necessario guardare all’arte in modo diverso, aprendone “il canone”. Ecco allora che la Switch House è interamente dedicata all’arte contemporanea internazionale. In esposizione il 60% di opere in più, tutte acquistate dalla Tate Modern nei suoi primi 16 anni di vita. Contro il “classico” monopolio degli artisti moderni – uomini – occidentali, grande spazio è lasciato alle donne. Nel 2000 le opere femminili erano appena il 17% di tutta la collezione, oggi il 50% delle sale dedicate a singoli artisti sono loro riservate.

I TEMI Notevole l’Artist Room di Louise Bourgeois, artista franco-americana che ha dedicato la sua arte ai grandi temi della nascita, della paura, dell’amore con l’onestà emotiva di cui solo le donne sono capaci, e ancora le sculture corporee della tedesca Rebecca Horn. Strutture da indossare – in tessuto, metallo, legno, piume –, capaci di cambiare la percezione di se stessi nello spazio, o l’interazione tra individui: una maschera di penne a coprire il volto, enormi mantelli, dei guanti dalle lunghissime dita, per percepire il lontano, vicino… Tra i nomi noti anche Ana Lupas e Marina Abramovich. Tra i forse meno noti il lavoro multi-media sull’invisibilità delle donne anziane di Suzanne Lacy, o “Strangers” di Amalia Pica, opera che prevede due attori che tengano un filo di bandierine sospeso per aria, a rappresentare un confine che per essere mantenuto mai permette alle due persone ai due capi di avvicinarsi. Controparte, questa, delle “Capsules” di Ricardo Basbaum, dove invece si è invitati a sdraiarsi e interagire con il casuale vicino di letto, come dentro le quotidiane “gabbie” della nostra vita.

 
ESPOSIZIONI Sono tre i nuovi livelli espositivi, e a questi si aggiungono i Tanks al piano zero (zona un tempo dedicata alla centralina elettrica), spazio destinato all’arte performativa, al rapporto attivo arte-fruitore. Si può rincorrere dunque la propria ombra nell’opera di Dominique Gonzalez-Foerster, oppure riorganizzare a piacimento l’opera del pakistano Rasheed Araeen, composta di 100 enormi cubi blu, come un grande Lego. In tutta la Switch House solo due sono le tele presenti: una è un grande collage di materiali cittadini raccolti sotto casa dal losangelino Mark Bradford, l’altra, il Mogamma dell’etiope Julie Mehretu, rappresenta invece in modo astratto, attraverso sottili linee di grafite, alcune piazze di protesta, come la Tahrir Square. Al rapporto con la città è dedicata tutta una sezione “Living Cities”, con le opere appena citate. Qui l’ucraino Mikjailov racconta attraverso una serie di fotografie, nelle quali è sempre presente un elemento rosso, Charkiv e gli anni del post regime sovietico, l’egiziano Yalter le comunità di immigrati a Istanbul, Parigi e New York, e infine Rechmaoui lascia calpestare una pianta di Beirut riprodotta in gomma, indistruttibile come sembra lo spirito degli abitanti di una città da sempre strapazzata.

I PAESI Giappone, Argentina, Ucraina, Benin, il mondo intero è presente all’interno della nuova Tate Modern, e come previsto dai migliori manuali di arte contemporanea non mancano le stranezze (se non le cialtronerie), come la favela di Oiticica con tanto di sabbia, piante e parrocchetti (vivi) starnazzanti o il modellino di una città algerina fatto interamente di cous cous cotto. Si esce, dopo la visita, prevedibilmente storditi dalla varietà di opere e mondi rappresentati, ma anche, come alla fine dei pensierini alle elementari, molto contenti e soddisfatti.
© RIPRODUZIONE RISERVATA