Aeham Ahmad, il pianista tra le rovine: «La mia musica contro le guerre»

Aeham Ahmad, il pianista tra le rovine: «La mia musica contro le guerre»
di Simona Orlando
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Mercoledì 4 Gennaio 2017, 00:01 - Ultimo aggiornamento: 5 Gennaio, 19:16
«Non sono bravo, non sono Mozart, sono solo il pianista di Yarmuk». Così si presenta Aeham Ahmad, al cellulare mentre gira in bici per Wiesbaden, dove ha finalmente trovato un po’ di pace. Classe 1989, viveva nel campo profughi palestinese alle porte di Damasco ed è forse il rifugiato più famoso del mondo, di sicuro di Germania. I suoi video dalla Siria hanno fatto il giro del web: quando il cielo non sganciava bombe, lui suonava il piano sul carretto dello zio fruttivendolo, fra le macerie, accompagnato da un coro di bambini. Quel piano glielo bruciarono i miliziani dell’Isis, quei bambini non si sa che fine abbiano fatto. Nel 2015 Aeham lasciò il suo paese, diretto in Turchia. Tragitto non sicuro, la moglie e i due figli tornarono indietro, lui proseguì, a piedi, in barca, in ogni modo. Dall’inferno al limbo burocratico. In Germania fu accolto, chiamato a suonare quasi ogni giorno, ma per via del suo status, non poteva essere pagato. Lo ha voluto incontrare Angela Merkel, ha il vinto Premio Beethoven, ad agosto ha pubblicato il suo primo disco, Music for hope, ora ha i documenti a posto, è autorizzato a lavorare e parte con il suo primo tour italiano il 6 gennaio a Locorotondo (Ba), 7 Auditorium Parco della Musica di Roma, 22 Mestre, 27 Taranto, il 2 febbraio a Firenze e il 4 ad Aosta.

Mr. Ahmad quanto è cambiata la sua vita?
«Finalmente non ho sussidi, mi mantengo da solo con il mio lavoro, mi hanno raggiunto mia moglie e miei due bambini, 2 e 4 anni. La mia è una storia a lieto fine ma sono mangiato dai sensi di colpa, perché lì c’è ancora la mia famiglia che muore, se non per le bombe, per la fame. Di mio fratello, imprigionato, non ho notizie da 4 anni. E io qui a fare concerti, che non riesco a cambiare le cose quanto vorrei».

La sua testimonianza è comunque utile.
«Cerco di dare voce al mio popolo e spiegare cosa succede in Siria, ma lì lottavo sul campo per la pace, davanti a un pubblico di senzaniente. C’è differenza. Non era spettacolo, era combattere con la musica per dare speranza. Mi manca cantare con la mia gente, e mio padre che mi suonava accanto».

Dove ha imparato a suonare?
«Mio padre è cieco, fa il violinista. Non aveva dischi, mi trasmetteva le canzoni a memoria. Pur poverissimo, mi comprò un pianoforte, mi mandò a studiare al Conservatorio di Damasco. Insegnavo musica ai bimbi del campo, poi, scoppiata la guerra, mi misi a vendere falafel. Quando tutto fu distrutto, decisi di suonare fra le macerie. Non potevo più stare zitto. Mio padre mi ha insegnato a parlare di vita attraverso la musica e questo non lo fa nessuna università».

Suona ancora nei campi profughi?
«Sì, quelli tedeschi. Sono famoso, ma resto lo stesso. Per farmi capire dal pubblico in tour faccio vocalismi così il sentimento è più diretto. Quando canto brani in arabo, traduco il testo. E poi studio molto, vado a lezioni di piano per migliorare. Amo Beethoven, un rivoluzionario che univa tecnica e romanticismo».

Vede la fine di questa guerra?
«Non è una guerra di religione, i terroristi hanno altri interessi. Il mio popolo non vuole né arruolarsi nell’esercito né imbracciare armi ed è la prima vittima dell’Isis, perciò scappa. Lasciamo il Paese solo perché non abbiamo alternative. Fra i tanti migranti c’è anche qualche pazzo terrorista, ma non si può generalizzare. Ho visto molti foreign fighters in Siria, eppure questo non fa dei britannici e degli europei un popolo di terroristi».

Cosa non riesce a dimenticare della sua esperienza?
«La voce della ragazzina morta vicino al mio piano, i volti di chi ho visto annegare in mare durante la traversata. Ora sono al sicuro, ma quando suono chiudo gli occhi e vedo solo Yarmuk».

E il futuro?
«Sogno una vita normale e di avere un passaporto rosso e non blu, da cittadino non da rifugiato, così da poter girare senza essere fermato in aeroporto, sospettato di essere un terrorista che cerca di imbucarsi. Lavoro a un secondo cd più internazionale, con musicisti europei. Presto esce la mia biografia Il pianista di Yarmuk e Christina Aguilera vuole produrre in esclusiva il film sulla mia vicenda, ma non troveremo un accordo se non mi lascerà la libertà di raccontarla come voglio io. A me non interessano i soldi né essere una star. Non voglio essere usato da altri, nessuno può dire la mia storia a modo suo».

Tornerebbe a Yarmuk?
«Sì, se ci fosse la pace. Tornerei anche se tutto è distrutto, perché è la gente che fa la casa, non la pietra».

 
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